L. Enrico

Filtri

Fatto e diritto
Ritenuto che con separati rapporti, rispettivamente in data 21 giugno e 24 luglio 1945 la locale Questura denunziava in stato di arresto D.  Salvatore e L.  Enrico sotto l’accusa di avere, durante il periodo di occupazione nazi-fascista, infierito ed incrudelito sugli ex detenuti politici del carcere di Marassi, il D.  valendosi della sua qualità di capoposto della g.n.r. colà distaccata, il L.  in veste di vero e proprio “braccio destro” del maresciallo tedesco Lassner da cui dipendeva la sezione politica del carcere stesso. La natura fondamentalmente identica dell’accusa, e regioni evidenti di economia di giustizia, determinarono unica istruttoria e quindi la connessione dei due procedimenti.
La vastità poi delle accuse e la loro ampiezza, specie nei confronti del L.  imponevano uno sforzo istruttorio considerevole ed un lavoro in profondità attraverso il quale concertare, fissare ed [ill.] specifici, le singole responsabilità, e queste poi riannodare in un tutt’uno nel filo logico della risoluzione criminosa del soggetto.
Una lunga teoria di testi veniva assunta così, tra le varie categorie di ex detenuti politici della IV sezione di Marassi e, dalle loro deposizioni e denunzie contenenti miriadi di episodi ancor freschi e vivi nelle menti abituate alle lunghe meditazioni del carcere, scaturivano le figure dei due imputati, il D.  latinamente impulsivo e violento, fascista credente e militante, il L.  [ill.] freddo e glaciale, perverso nella sua composta servilità verso i tedeschi i cui disegni, ormai ben noti, seppe comprendere così bene, da guadagnarsi la condirezione, con Lassner, del carcere politico.
Arrestato, perché appartenente alla razza ebraica, il 18-11-43, L.  Enrico veniva rinchiuso nelle carceri di Marassi, in attesa della deportazione in Germania, senonché egli, valendosi della sua perfetta conoscenza della lingua tedesca, riusciva in breve ad infiltrarsi nelle maglie della polizia nazista riuscendo ad evitare, per se e per la moglie la deportazione ed a trasformarsi ben presto da detenuto in carceriere. Le due fasi, iniziale e terminale di tale strana metamorfosi si possono indicare con le qualifiche di “interprete” la prima e vero e proprio direttore la seconda.
Il L. , acquistando lentamente e gradualmente la tipica mentalità poliziesca nazista ed accattivandosi sempre più la considerazione del personale tedesco, [ill.] – non si sa in forza di quale magia o di quale merito particolare – per soggiogare anche quest’ultimo tenendo in pugno la sezione politica del carcere e facendo dipendere da lui [ill.] interessasse tale sezione.
Di tali poteri il L.  si valse non tanto per alleviare le pene dei detenuti, quanto invece per incrudelirle, aiutato in ciò dal suo temperamento duro ed inflessibile. Ciò valse a terrorizzare la massa dei detenuti, che paventava la sua presenza ed ogni sua parola, a ciò si deve l’ira e cordoglio che ancora oggi quei detenuti provano al suo ricordo, i sarcasmi e le invettive che a stento riescono a trattenere in una gara impetuosa ea meglio bollarne l’infamia e la malvagità. Nei verbali resi dai numerosi testi uditi in istruttoria e riversato lo sprezzo contro il “braccio destro” del maresciallo Lassner, contro “l’aguzzino peggiore dei tedeschi” contro il “direttore del carcere tedesco” contro L.  “malvagio” “feroce” “brutale”.
Poche parole bastano per lumeggiare l’animo e la condotta di L. , attraverso l’esame di alcuni episodi narrati dagli ex detenuti politici di Marassi.
Verso la metà di gennaio del 1945 un giovane detenuto politico, Marco Berthoud, viene portato in cella in preda a commozione cerebrale ed abbondante emorragia. I tedeschi lo avevano interrogato nella Casa dello Studente e, per carpirgli il segreto della cospirazione, lo avevano sottoposto a torture massacranti. Un’ondata di sdegno si solleva in tutto in carcere all’indirizzo dei carcerieri ed assieme si inizia una nobile gara per alleviare le sofferenze del disgraziato Berthoud. Il detenuto Artom, ebreo e medico di professione, ed il personale del distaccamento italiano, sollecitano presso il L.  il trasporto del Berthoud in infermeria per le cure del caso, ma quegli, inspiegabilmente e recisamente, si rifiuta. Berthoud deve restare in cella e si aggrava di giorno in giorno fino a diventare veramente intrasportabile. Ora è Artom che ordina che non sia rimosso; ma ecco che L. , dopo altri inspiegabili movimenti imposto al corpo inerte del povero martire, lo fa trasportare alla III sezione, in una cella occupata da altre trenta detenuti, in condizioni igieniche impossibili. Al Berthoud furono negate le cure d’infermeria; ed essendo state richieste per lui (dall’Artom) quanto meno l’immobilità, mai corpo di paziente, per contrapposto, venne assoggettato a maggiori disturbi.
Si completava, così, finalmente, l’opera dei tedeschi: Berthoud si aggrava irrimediabilmente e perviene ad uno stato agonico. Una domenica sera l’Artom, chiamato d’urgenza, si accorge che Berthoud sta per morire. Fa chiamare L.  ed implora per il giovane una morte meno penosa, in condizioni igieniche migliori (il moribondo giaceva in lurida paglia, brulicante d’insetti, a terra) ed in una cella da solo, ma quegli si irrita per essere stato disturbato per così poco in giorno festivo, e risponde: “se deve morire, può morire anche senza di me”. E Berthoud, infatti, muore. I testi oggi affermano, e il medico non lo esclude, che il giovane, se fosse stato tempestivamente curato, avrebbe potuto guarire, ed attribuiscono esclusivamente al L.  il diniego e la mancanza di ogni cura (vedi diposizioni Baratini, Balestrero, Artom).
Altra volta vengono trasportati in carcere tre giovani patrioti feriti in conflitto coi “Risoluti”. Sono in condizioni gravissime e disperate. (Uno di essi ha avuto una gamba amputata e la ferita è in cancrena; l’altro ha già subito la laparotomia. Tutti sono operati solo da un paio di giorni), ma vengono egualmente gettati sulla nuda paglia. L’infermiere La Rosa implora da L.  il trasporto dei tre giovani in infermeria, ma L.  lo investe nello stesso modo lasciandosi sfuggire che i patrioti avevano sfidata la morte affrontando i “Risoluti” e pertanto non si doveva avere pietà di loro. Il La Rosa appronta allora, arbitrariamente e di nascosto, una specie di infermeria nella cella stessa in cui erano stati rinchiusi i pazienti e riesce, per il momento, a salvarli da morte sicura, che poi i disgraziati vennero fucilati per rappresaglia alla vigilia della liberazione (vedi testim. La Rosa).
Ma l’attività malvagia del L.  non si esaurisce in singoli episodi. Un giorno egli s’accorge che l’agente Roberto, violando il regolamento del carcere, riuscendo a far passare un po’ di tabacco a detenuti politici. Lo affronta, lo consegna all’agente Risi (già condannato a morte) ordinandogli di batterlo in sua presenza e lo fa poscia chiudere in cella (vedi deposizione testi Barabino, Roberto).
L. ispeziona le manette che vengano bene stretti i polsi dei detenuti politici; L. sovraintende al prelievo dei detenuti che per ordine dei tedeschi devono essere giustiziati o deportati, e ad essi non risparmia sarcasmi crudeli e gli insulti più ignominiosi. Si irrita se un detenuto lo chiama dalla cella e ordina senz’altro che tutta la cella rimanga senza vitto; è ancora lui che ordina 24 ore di digiuno ad un detenuto ritardatario all’appello per traduzione alla Casa dello Studente; ed è sempre lui che risponde in tono ironico e sogghignando a chi gli richiede qualche favore o a chi gli espone qualche dolore. I detenuti sono esasperati dal suo comportamento e dalle sue sottili, perfide, malvagità e l’esasperazione li accompagna nei campi di morte della Germania dove, assetati di giustizia, coloro che più non torneranno affidano a compagni di rendersi interpreti di tutto il disprezzo loro verso il L. , che doveva essere loro compagno di dolore e si fece invece strumento dei loro aguzzini (vedi testi già citati ed ancora Prof. Poggi, Ancona, etc.)
[…]
L. e D. , l’uno mente direttiva del carcere politico, l’altro braccio forte del tedesco oppressore, sono oggi chiamati a rendere conto delle loro colpe.
La materialità dei fatti resta qual è, provata sotto le schiaccianti deposizioni dei numerosi testi escussi.
La difesa si sofferma sull’elemento doloso del reato.
L. , dopo un primo tentativo, caduto miseramente di fronte alla [ill.] travolgente delle testimonianze contrarie, di spiegare com’egli fosse completamente fuori dalla organizzazione sanitaria del carcere, dacché non a lui si dovrebbe attribuire la morte del Berthoud ma unicamente al disservizio che regnava attorno alla IV Sezione; dopo un secondo tentativo di far credere che tutto il suo comportamento nei rapporti con i detenuti fosse dovuto non al proposito di collaborare col tedesco, ma unicamente al suo temperamento irascibile, nonché alla tensione dei suoi nervi e alla forzata prolungata permanenza in quella di dolore e di [ill.] agisca finalmente a carte scoperte e, tutto ammettendo assume tuttavia che egli era giocoforza comportarsi come si comportò, allo scopo di non destare sospetti nell’animo dei tedeschi, considerato ch’egli era in sostanza un detenuto e che un nonnulla sarebbe bastato per procurargli la deportazione in Germania come ebreo e fors’anche la morte.
Senonché, a prescindere dalla considerazione che il timore per la propria persona non poteva autorizzarlo ad infierire tanto sulla massa dei detenuti, in modo da acutizzare al massimo le loro sofferenze morali e materiali (si leggano le denunzie e le deposizioni autorevoli ed intelligenti del Prof. Poggi e del Sindaco Faralli e degli altri detenuti politici) e da instaurare un vero regime di terrore, giova appena osservare come neppure fosse necessario per evitarvi dei guai, ingenerare nei detenuti un odio mortale verso se stesso, che anzi non è trascurabile l’aiuto morale e materiale ed il conforto ch’egli avrebbe potuto porgere ai detenuti senza il suo pregiudizio. La posizione conquistata dal L. , poteva costituire un’arma potentissima per neutralizzare il sistema terroristico dei tedeschi, e contribuire alla lotta clandestina di liberazione che sfrenatamente e senza quartiere si combatteva sempre e ovunque, anche in carcere, nonostante perquisizioni, vessazioni e sevizie di ogni genere. Anche un semplice comportamento passivo sarebbe stato sufficiente e non avrebbe compromesso il L.  che d’altronde è persona colta ed intelligente e gli bastava un minimo di avvedutezza per non destare sospetti, specie dopo che tanta incondizionata stima si era conquistata presso i tedeschi.
Il L. invece teneva unicamente alla stima dei suoi padroni e tanto fece che la sua persona era più temuta che quella dello stesso maresciallo tedesco: in nessun momento della sua attività appare nel L. il benché minimo barlume di umanità. Egli, a contatto coi, tedeschi era diventato insensibile, duro e crudele come loro.
A lumeggiare meglio la figura del L. in tutta la sua perfidia, abbiamo [ill.] altri due detenuti ebrei, che pure dovevano sentire preoccupazioni identiche a quelle del L., ed anzi di molto superiori, posto che non erano favoriti dalla protezione ed amicizia tedesca: il dott. Artom ed il Polacco. Trascurando anche la figura dell’Artom, la cui attività tuttavia appare coraggiosa ed improntata ad alto senso di umanità e carità, molto meglio serve quella del Polacco. Anche costui aveva finito per essere incaricato della custodia dei detenuti. La sua condotta non era certo molto chiara, perché neppure in quella casa di dolore ha saputo rinunziare a quella caratteristica prerogativa dei suoi correligionari, la febbre cioè dell’affare. E trattandosi di luogo di miseria, gli affari risentivano della miseribilità [?] dell’ambiente; inoltre pare anche che il Polacco alimentasse il suo commercio sottraendo quanto poteva dai pacchi dei detenuti; ed infine, attività ancora più schifosa, che avesse la improntitudine di attentare alla virtù di alcune delle misere donne che si recavano al carcere per avere notizie dei parenti reclusi. Un losco individuo insomma. Eppure nessuno lo ha accusato di brutalità di nessun genere ed anzi, ad un certo punto dell’episodio del sindaco Faralli (che, si noti, in quel frangente per lui non era altro dei tanti infelici soggetti, senza autorità, rinomanza e ricchezza da fare sperare favori particolari) riportato in cella dalla Casa dello Studente, ridotto in gravi condizioni per le torture, il Polacco cede alla sua natura e, di fronte alla sofferenza di un suo simile, si rivela anche lui uomo di cuore, coraggioso, poiché non ha esitato ad assistere in tutti i modi il ferito, cedendogli anche per lungo tempo parte del suo  cibo.
Questo contrapposto, con il contegno tenuto dal L.!
Nell’operato del L. si ravvisano perciò gli estremi caratteristici della intelligenza col nemico. L’attività [ill.] esplicata dall’imputato è di ordine squisitamente intellettivo, costituita da una fitta rete di piccoli e grossi fatti, tutti rivolti ad n unico scopo: rappresentare e personificare l’oppressione nazi-fascista nei contatti [?] più diretti ed immediati. E che ci fosse perfetta corrispondenza intellettiva del L. col Comando SS germanico da cui dipendeva la IV sezione del carcere è dimostrato dal fatto che di uguale considerazione il L. godeva non colo col Maresciallo Lassner ma anche nei confronti del maresciallo Poelker che aveva preceduto costui nel comando, dalla considerazione che i poteri e i benefici elargiti al prevenuto non avrebbero diversamente spiegazione alcuna.
Il L.  infatti poteva a suo arbitrio escludere chi gli garbasse dalla lista dei deportandi in Germania; aveva la facoltà uscire fuori dal carcere per recarsi in casa propria e pernottarvi; gli era stato assegnato nei locali della direzione dello stabilimento di pena un piccolo appartamento dove egli abitava insieme alla propria consorte (ebrea) che beneficiava pure essa della libertà più completa, non avendo, neppure formalmente la condizione di detenuta.
Ora, per chi conosce i tedeschi ed i loro sistemi, tanti e così strabilianti benefici [ill.] non possono essere stati accordati altro che col Comando delle SS essendo impossibile che i diversi marescialli avvicendandosi a Marassi potessero assumere su loro tali responsabilità. E se il Comando Germanico della Casa dello Studente ha avuto tanta condiscendenza ciò riguarda che ha avuto in contraccambio dal L. qualche cosa di molto prezioso, che non poté essere certo la sola conoscenza della lingua tedesca.
Anche il Prof. Poggi, come moltissimi altri, conosceva bene la lingua tedesca, ma ciò non ha impedito che egli fosse torturato e seviziato in ogni modo.
Ed il prezioso servizio domandato ed accordato non era solo quello di dirigere le carceri e governare i detenuti senza pietà, ma bensì di coadiuvarli nel tentativo di estorcere la confessione dagli arrestati mentre erano sottoposti agli interrogatori. Dichiarazioni precise di testi (fra cui l’Ancona completamente disinteressato) forniscono la prova che il L.  si era assunto anche tale obbrobriosa mansione.
Parecchio materiale produceva il L. a sua difesa riguardo i rapporti con la “Delasem” (opera di soccorso ebraica) e l’attività copiosa svolta in favore di quest’ultima, ma si tratta di materiale che, se pur notevole, anche per la fonte da cui proviene, resta fuori, per così dire, dalla soglia del carcere dove il L., anche se entrato a motivo della sua presunta attività antitedesca, maturava in breve il proposito di collaborare coi suoi stessi persecutori. L’attività tuttavia svolta dal L.  nel periodo incriminato a favore dei suoi correligionari (non rilevantissima, in verità, poiché si limitò a delle informazioni) non potrà non pesare a suo favore nella bilancia della giustizia, ma intanto toglie ogni fondamento alla istanza di perizia psichiatrica avanzata dalla difesa in quanto dimostra, in correlazione con tutto ilo comportamento del prevenuto, che questi quando voleva, sapeva – senza compromettersi – sfruttare con astuzia il suo posto.
Che il L., in considerazione delle circostanze che lo indussero a rendersi collaboratore del tedesco e tenuto conto dell’attività [ill.] sopra svolta in favore della causa ebraica potranno concedersi le attenuanti generiche e ridurre di conseguenza ad anni 30 di reclusione la pena capitale prevista per il reato che gli è stato contestato.
[…]

Enrico del reato di cui all’art. 5 D.L.L. 27 luglio 1944 n.159, in relazione all’art.54 Cod. Pen. MiL. di guerra – per avere, in Genova, posteriormente all’8 settembre 1943, allo scopo di favorire il tedesco invasore, tenuto con esso attiva intelligenza prestandosi a dirigere la speciale sezione tedesca del locale carcere di Giudiziario dove erano rinchiusi i detenuti politici che egli sistematicamente vessava in vario modo maltrattandoli e rifiutando loro, dopo le [ill.] degli interrogatori, ogni minima assistenza tanto da cagionare tra l’altro la morte del detenuto Mario Beltrami e così contribuendo notevolmente, con violazione dei suoi doveri di uomo e di italiano, a mantenere vivo il regime di terrore instaurato dal tedesco in terra italiana.
D. Salvatore

  1. Del reato di cui all’art. 5 D.L.L. 27.7.1944 n.159 e 54 Cod. Pen. MiL. di guerra – per avere in Genova, posteriormente all’8 settembre 1943, allo scopo di favorire il tedesco invasore, tenuto con esso intelligenza variamente maltrattando i detenuti politici alla cui custodia era preposto nel locale carcere giudiziario e così contribuendo a mantenere vivo il regime di terrore instaurato dal tedesco in terre italiane.
  2. Del reato di cui all’art. 5 D.L.L. 27.7.1944 n.159 e 54 Cod. Pen. MiL. di guerra – per avere in Genova, posteriormente all’8 settembre 1943, favorito i disegni politici del tedesco invasore denunciando come comunista il Comandante delle G.N.R. [?] nella quale si era arruolato Sinigaglia Angelo e prestandosi altresì a trarre in arresto questo ultimo che condotto in carcere, veniva consegnato alla polizia germanica e da questa maltrattato.

P.Q.M.
Visti ed applicati gli articoli di legge (483-188) Cod. P. Mil. – art. 9 D.L. 27 luglio 1944 n.159), dichiara L. Enrico colpevole ai sensi dell’art.54 C.P. di guerra e, col beneficio delle attenuanti generiche, lo condanna alla pena di anni trenta di reclusione ed accessori.
Dichiara D. Salvatore colpevole del reato di cui agli art. 58 C.P. di guerra, e, così modificata la rubrica, lo condanna alla pena di anni sedici di reclusione ed accessori.
Ordina la confisca dei beni degli imputati a sensi di legge.

ANNO:

1945

TRIBUNALE:

Corte di assise straordinaria di Genova

PRESIDENTE:

Cugnorra Giuseppe

TIPOLOGIA DI ACCUSA:

ACCUSATI:

D. Salvatore
L. Enrico

VITTIME:

Artom
Polacco

COLLOCAZIONE:

Archivio di Stato di Genova, Corte di Assise Straordinaria, Sentenze, b.78.