F. Felice

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F. Felice, cittadino italiano, nato in Svizzera e buon conoscitore della lingua tedesca, era alle armi alla data del 8 settembre 1943, sbandatosi si presentò in seguito e fu assunto quale interprete presso vari comandi tedeschi. Nella primavera-estate del 1944 il generale tedesco Burger lo prese con sé ove farsi accompagnare in vari viaggi per la Francia meridionale e per l’Italia.

L’imputato ci ha detto che non si occuparono di altro che di vino e donne.

Ammalatosi a Perugia, fu lasciato in libertà, è munito di un tesserino-salva condotto, tale da procurargli libero accesso presso tutte le località germaniche. Tornato a Verbania-Intra, suo luogo di residenza (regione Trobaso) il F. ebbe a bazzicare alquanto con i comandi tedeschi. Sta di fatto che egli si teneva anche in contatto con le formazioni partigiane e che ebbe occasione di rendere servizio a parecchi industriali della zona, ripetendo la deportazione in Germania di vari gruppi operai e facilitando gli industriali, per mezzo delle sue aderenze il rifornimento delle materie prime. Fu compensato di questa sua attività, tra l’altro Comm. Albertini ebbe volontariamente a corrispondergli compensi per circa 400.000 Lire.

Non è dubbio che l’attività del F. sia stata utile nell’interesse delle maestranze: è uopo aggiungere che fu utile anche per gli industriali e lui medesimo.

Il primo capo di imputazione si riferisce ad un episodio è avvenuto a Verbania nel settembre 1943. Una famiglia di tre ebrei, di nome Ovazza padre, madre ed una figlia, caduta in mano ai tedeschi, ebbe a scomparire.

Dalla deposizione di Rusconi Idia, custode delle scuole femminili dove avvenne il fatto, confermata da quanto hanno riferito i testi Uccelli Luigi, Grinovero Giuseppe e Grinovero Francesco, risulta che effettivamente i tre furono condotti nelle cantine delle scuole, uccisi, fatti a pezzi dai tedeschi, ed arsi nella caldaia del termosifone.

Essi furono visti scendere, sotto scorta, si sentirono i colpi e nessuno li vide più.

Le tracce scoperte poi in cantina ed il dente trovato nelle ceneri tratte dalla caldaia, ad opera della bambina della Rusconi, non lasciano alcun dubbio sulla loro sorte.

Il F. in quel tempo era interprete di quel reparto, per altro nessuno ebbe a vederlo in occasione del fatto in compagnia dei massacratori. La Rusconi dopo lo scarico dei bagagli degli ebrei: ma ben prima della strada, lo vide scendere una scala (non quella di cantina). Il fuoco non venne acceso in sua presenza e non è neppure rimasto provato che il F. fosse stato visto in seguito intento a dividere delle somme con due militari tedeschi; ansi in proposito la Uccelli ha dichiarato che non le pareva che con i due tedeschi che dividevano i soldi ci fossero dei borghesi. Non sembra per tanto che la voce pubblica trovi conferma nei fatti accertati.

L’unica circostanza positiva si riferisce in quanto il F., circa 15 giorni dopo ebbe a dire alla Rusconi, e cioè, dopo di averle chiesto se nella caldaia avevano trovato nulla, che egli aveva vendicato un suo fratello ucciso dagli inglesi, i quali erano sovvenzionati dagli ebrei. Tale frase non costituisce per altro una confessione perché il Ferri poteva rallegrarsi del fatto degli ebrei, anche senza aver avuto parte nell’ eccidio. Quanto alla parola “vendicato” in mancanza di altre indicazioni specifiche ed i fatti positivi, si può benissimo interpretarla quale l’espressione di un senso di soddisfazione per aver fatto da interprete ai tedeschi, facilitando così il loro compito.

Ma nulla autorizza a ritenere che il F. possa avere avuto parte in quel fatto di omicidio, bensì vi è qualche sospetto, ma manca del tutto la prova che l’imputato abbia commesso il fatto, talché devesi pronunciare il proscioglimento con formula ampia.

I fatti specificati nel secondo capo di imputazione hanno tutti una caratteristica in comune e cioè che il F. non ha mai offerto i suoi servizi, bensì ha accondisceso su richiesta degli interessati. Del resto è verissimo che egli si fece dare dal Noia 2.000 Lire, che poi dovette restituire in seguito all’intervento di tale signora Vacchetti, amica di un maresciallo tedesco, il quale si offese o disse di essere offeso per il discredito gettato sull’esercito germanico, che si fece dare Lire 220.00 dal Tranquillini che ottenne dai familiari del Dr. Rubini Leone e cioè dall’ Avv. Rubini Vittorio, dopo varie contraddizione e raddoppiamento il riscatto all’ultimo momento, Lire 400.000 per procurare la liberazione del Leone, il quale, arrestato nei pressi del confine, di ritorno dalla Svizzera, perché marito di una signora di razza ebraica, si trovava alquanto preoccupato per la sua sorte, essendo a disposizione dei tedeschi.

In tutti e tre i casi gli interessati ottennero quanto si prefiggevano, e cioè il Noia la liberazione del figlio, il Tranquillini un lascia passare e Rubini Leone la propria libertà. Siamo evidentemente all’infuori dei limiti del collaborazionismo politico, talché al F. è stato contestato il reato di estorsione. Occorre chiede se simili situazioni rientrino nel quadro nell’art. 629 c.p. l’elemento della violenza o minaccia è innegabile, anche se la situazione, e cioè il pericolo nel quale si sono trovate le tre vittime, non poteva essere imputata al F., chiamato solo in seguito in aiuto. Non occorre che la violenza sia in atto o la minaccia sia proferita quando esse sono rispettivamente in potenza, come nei casi in esame, perché i pericoli che minacciavano gli arrestati o i ricercati dalle autorità tedesche o neo-fasciste erano tutt’altro che immaginari.

Chi intende valersi della violenza o della minaccia come di uno strumento, può benissimo operato altrui, nel qual caso l’illiceità consiste nell’aver adattato ai fini propri le attività degli altri. Del pari la corte ritiene che non sia fatto rilevante ricercare se il F. abbia avuto un profitto proprio. Questa circostanza deve peraltro essere provata, sia in considerazione dell’episodio del maresciallo tedesco sia dell’importo fisso chiesto a Tranquillini, prima di aver potuto assumere qualsiasi informazione su quelle che avrebbero potuto essere le pretese dei tedeschi, sia in considerazione della lunga contrattazione con l’Avv, Vittorio Rubini, e del conseguente raddoppio all’ultimo momento.

Per altro, il legislatore ha provvidamente parlato di “ingiusto profitto per sé o ad altri”. Dato che il profitto era per ogni caso ingiusto, perché i tedeschi non avevano certo il diritto di mercanteggiare la vita e la libertà degli arrestati, il F. non avrebbe dovuto ricevere denaro fiduciariamente neppure per altri: se proprio non si poteva a meno di comprare i tedeschi, egli avrebbe dovuto richiedere che se ne facesse direttamente rimessa. È vero che rimarrebbe pur sempre l’induzione sul dolo; ma tutto ciò è superfluo perché le circostanze di causa permettono di ritenere che il Ferri, se non altro in parte, procurò e tenne le somme per sé.

La questione è per altro lungi dall’ essere risolta. Il momento d’esecuzione del reato di estorsione consiste nella costrizione che alcuno esercita mediante violenza o minaccia, le quali ultime non occorre siano in atto bastando che la loro eventualità sia tale da influire sulla volontà della vittima.

In ciò appunto consiste la differenza tra la rapina per cui si richiede la violenza materiale, e l’estorsione.

La costrizione deve essere riferita al fatto dell’agente, perché ci si può avvalere dell’opera altrui, ma occorre pur sempre, ai fini della responsabilità personale, che vi sia un rapporto diretto di causa ad effetto, tra il fatto dell’agente e l’evento dannoso. La questione sarebbe superata se fosse provato che il F. fosse comunque d’accordo con le autorità tedesco per la persecuzione dei patrioti, al fine di far sborsare delle somme dalle famiglie. Per altro i casi in esame non risultano affatto da imputarsi specificatamente ad un qualsiasi intervento preordinato dal F., chiamato invece in un secondo tempo dalle vittime stesse.

La costrizione esercitata di fatto su tutti coloro che si accingevano a pagare, risultava prodotta dall’operato dei tedeschi non già dall’opera diretta del F., e non vi è neanche l’ombra di una prova che egli avesse comunque partecipato, per un fine qualsiasi all’opera di repressione dell’Autorità germanica.

Dato che il F., non ha compiuto opera diretta di costrizione né vi ha partecipato, perché le situazioni si sono verificatesi all’infuori di ogni attività, egli non deve rispondere né direttamente né a titolo di concorso.

Il suo contegno è stato riprovevole, in quanto egli ha approfittato della sua posizione, perché ben visto dai tedeschi, per riempirsi le tasche, come del resto aveva approfittato dell’occasione per ottenere ricchi donativi dagli industriali della zona, d’altra parte è innegabile che in altri casi egli ha prestato efficace opera di assistenza ed anche gratuitamente, anche a rischio a proprio come il caso nel caso del partigiano Rossi. Tutto ciò per altro non toglie; che; comunque sia giudicata la sua condotta, la sua azione riguardo ai fatti di cui al capo secondo non costituisce reato.

Circa la terza imputazione, osservassi che il teste Buzzi, sentito all’udienza, ha escluso che comunque il F. abbia mai fatto o sottointeso delle richieste per il suo interessamento circa una macchina sequestrata.

Quanto alla Contessa Bonacossa, è risultato vero che il F., il quale per altro non si presentò mai alla Signora le aveva fatto sapere che essa era ricercata perché aiutava i partigiani. La contessa Bonacossa ebbe ‘impressione che si trattasse di un volgare ricatto' e non si impressionò per nulla, non le venne inoltre richiesta somma alcuna.

Per il fatto Buzzi nulla si può rimproverare al F., quanto al fatto Bonacossa vi è proprio ragione di credere che egli avesse intenzione di operare un ricatto; ma dato che nella specie non vi fu neppure un tentativo perché venne a mancare sia pure un principio di esecuzione si deve dichiarare che il fatto non sussiste.

Imputato per:

Del reato di cui all’art. 1 d.l. 22.4.45 n. 142, art. 5 d.l 27.7.1944 n. 159, art. 51 c.p.m. per aver in Verbania nel settembre 1943 concorso all’uccisione di tre cittadini italiani di razza ebraica.

Del reato di cui agli articoli 629 c.p. per aver indotto Tranquillini Dott. Claudio, Rubini Leone e Noia Carlo a versagli rispettivamente 22.400 e 10.000 Lire giovandosi dello stato di minaccia sugli stessi esercitata dalle autorità tedesche per motivi politici.

Del reato di cui l’art. 56, 629 c.p. per aver tentato di indurre Buzzi Ernesto e Bonacossa Ester a versagli somme imprecisate di denaro incutendo loro il terrore di danni alle cose ed alle persone da parte delle autorità tedesche.

P.Q.M

La Corte, visto l’art. 479 c.p.p. assolve F. Felice, dall’imputazione di collaborazionismo col tedesco invasore per non aver commesso il fatto, dall’imputazione di estorsione in danno del Tranquillini Claudio, Rubini Leone e Noia Carlo perché il fatto non costituisce reato e dall’imputazione di tentata estorsione in danno di Buzzi Ernesto e Bonacossa Ester perché il fatto non sussiste

ANNO:

1946

TRIBUNALE:

Corte di Assise di Novara

PRESIDENTE:

Faranda Giuseppe

TIPOLOGIA DI ACCUSA:

Omicidio,

ACCUSATI:

F. Felice

VITTIME:

Ovazza Elena
Ovazza Ettore
Sacerdote Nella

COLLOCAZIONE:

”Ieri Novara Oggi”, dicembre 1996, n.4-5

BIBLIOGRAFIA:

Holpfer, L'azione penale contro i crimini in Austria. Il caso di Gottfried Meir, una SS austriaca in Italia. "La Rassegna Mensile di Israel", LXIX, 2003, pp. 619–634 Lazzarotto, F. Presbitero, Sembra facile chiamarsi Ovazza. Storia di una famiglia ebraica nel racconto dei protagonisti. Milano, Edizioni Biografiche, 2009 Nozza, Hotel Meina. La prima strage di ebrei in Italia, Mondadori, Milano 1993 Spagnolo, Aspetti della questione ebraica nell'Italia fascista. Il gruppo de “La Nostra Bandiera” (1935-1938). "Annali del Dipartimento di scienze storiche e sociali", V, 1986-87, pp. 127–145; Stille, Uno su mille. Cinque famiglie ebraiche durante il fascismo. Milano, Mondadori, 1991 Toscano Io mi sono salvato. L'olocausto del Lago Maggiore e gli anni di internamento in Svizzera (1943-1945), Interlinea, Novara 2013