P. Gaetano

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In esito all’orale e pubblico dibattimento; sentito il rappresentante delle parti offese costituitisi parti civili nell’odierna sede di giudizio Ionnino Lanza (Sonnino), Terracina Lello, Zarfati Adriana (Zarfati), Pavoncello Elio, Di Porto Gabriele, Terracina Alberto, Astrologo Angelo, Di Segni Enrica, Di Veroli Amadio, Piperno Virginia, Pavoncello Angelo.

Sentiti il Rappresentante della pubblica accusa e i difensori degli imputati; osserva e ritiene quanto segue. L’attuale processo rievoca alcuni episodi della persecuzione razziale promossa dalla così detta Repubblica sociale italiana, occorso in Roma nella primavera del 1944, e su cui l’autorità di PS giovandosi anche di notizie pervenutele in precedenza, cominciò a svolgere indagini per l’identificazione dei colpevoli e per la raccolta di elementi di prova subito dopo la liberazione capitale, dei quali episodi furono vittime e oggetto le persone e gli averi di israeliti del piccolo ceto, e protagonisti individui, due eccettuatine, di bassa estrazione social Le indagini della polizia, cui ben presto si aggiunsero le denunce di alcuni degli interessati, diedero luogo ad un procedimento giudiziario svoltosi con rito sommario, nel quale furono elevati a carico delle persone indiziate gli addebiti di collaborazione con il nemico tedesco, sequestro di persona e saccheggio, reati che si assumevano perpetrati con il fornire indicazioni per l’arresto e con il concorrere materialmente alla cattura di ebrei; i quali venivano poi consegnati direttamente o indirettamente, ai tedeschi, col depredare le abitazioni di altri israeliti, e, in un caso isolato, con l’asportare un deposito, esistente in un convento della città, di effetti mobili e merci pure appartenenti ad ebrei. L’istruttoria coinvolse poi anche altri individui, non partecipi dei fatti sovra indicati, ma ai quali veniva fatto carico di avere occultato nella propria abitazione, a scopo di lucro, oggetti di provenienza furtiva, e precisamente rappresentanti il compendio di saccheggi commessi al danno di ebrei. Nella medesima istruttoria inoltre si indagò pure su un episodio di diverso genere, cioè sulla cattura di due militari inglesi evasi dalla prigionia e delle persone che li ospitavano nella loro abitazione in Roma; e anche per tale fatto vennero elevate contro i denunciati le imputazioni di collaborazione con il nemico tedesco e di sequestro di persona. L’istruttoria infine si estese ad un ultimo e ancor più differente episodio, ossia ad un violento contrasto scoppiato tra un gerarca della federazione fascista repubblicana di Roma e due militari repubblicani della P.A.I., e pel quale l’anzidetto gerarca fu imputato di oltraggio con violenza al pubblico ufficiale e di sequestro di persona, imputazioni che si aggiunsero all’altra di collaborazione con il nemico tedesco, estremizzata nel servizio prestato presso la federazione fascista repubblicana di Roma alle dipendenze dell’allora federale Pizzirani. L’istruttoria sovra mentovata, naturalmente molto complessa e laboriosa per quanto condotta in via sommaria si concluse con il rinvio al giudizio di questa Corte degli odierni prevenuti, chiamati a discolparsi delle varie imputazioni loro rispettivamente ascritte come in epigrafe. Tanto premesso brevemente, avvisa opportuno il Collegio di iniziare l’esame delle risultanze processuali da quelli fra gli imputati la cui posizione è più semplice, e più indipendente o meno connessa con quella degli altri. Cominciando pertanto dal P. Gaetano, è risultato in causa che sulla fine 1943 gli ebrei Sonnino Laura, Tagliacozzo Gino, Mieli Umberto, Astrologo Mosè, Pavoncello Angelo e Di Veroli Amadio avevano pregato ed ottenuto dal padre priore del convento dei benedettini di via Sant’Ambrogio 3 in Roma di depositare nel convento stesso, onde sottrarli alle perquisizioni tedesche, diversi fagotti, valigie e cappelli contenenti merci, indumenti e oggetti vari di loro proprietà. Nel pomeriggio del 1 aprile 1944 si presentarono al portinaio del detto convento 4 o 5 persone in borghese, che chiesero del padre priore, e che, attendendone la venuta, si misero a girare per i locali della casa. Al padre priore sopraggiunto gli stessi individui, già qualificatisi come appartenenti alla guardia nazionale repubblicana, dichiararono di sapere che nel convento erano depositate merci appartenenti ad ebrei che li dovevano requisire. Mentre gli anzidetti individui trasportarono le robe degli israeliti nel cortile del convento, il priore avvertì del fatto il commissariato di P.S. Campitelli, da cui vennero subito inviati sul posto prima un maresciallo e poi un commissario, a quest’ultimo il priore stava esibendo un documento, firmato dal governatore della Città del Vaticano e dal Comando Militare Tedesco di Roma, e secondo il quale era vietato di procedere a perquisizioni e requisizioni nel convento, quando sopraggiunse il P. Gaetano, il quale dichiarò di aver ricevuto ordini tassativi dai suoi superiori fascisti, e di dover procedere a sequestro delle robe degli ebrei d’ordine del delegato del partito fascista repubblicano ingegnere Brega. Alle rinnovate proteste e rimostranze del priore, il P. accondiscese a sospendere per quel giorno il trasporto delle robe e, ma nel pomeriggio del successivo 4 aprile egli si presentò di nuovo al convento in compagnia di altre persone, e ripetè che tutta la merce degli ebrei doveva essere requisita e trasportata via, e difatti il trasporto ebbe luogo a mezzo di un autocarro e nello stesso giorno o al massimo seguente, e la merce fu portata alla federazione fascista repubblicana in Piazza Colonna. Quando le ora riferite circostanze vennero in sede istruttoria contestate al P., egli non negò affatto la parte che vi aveva avuto, ma sostenne che si era interessato della faccenda dopo che questa aveva già avuto inizio, e unicamente perché, trovandosi una sera alla sede del partito fascista in Piazza Colonna, l’ingegnere Nereo Brega gli aveva ordinato di recarsi subito al convento di Sant’Ambrogio per cercare di appianare una questione sorta con quei religiosi a proposito di una perquisizione che vi si stava compiendo o che si voleva compiere. Ed aggiunse che, pure avendo dovuto insistere perchè le robe degli ebrei fossero requisite e trasportate altrove, per essere poi destinate all’assistenza pubblica, egli aveva cercato di fare del suo meglio perché le cose procedessero il più regolarmente possibile, tanto che si era preoccupato di redigere un inventario della merce, e aveva inoltre consigliato il priore del convento di denunciare senza riguardi per nessuno, le sottrazioni che fossero state permesse dagli uomini che avevano caricato e portato via la merce stessa. Dichiarazioni sostanzialmente identiche prese poi il P. nell’interrogatorio reso al dibattimento, aggiungendovi la circostanza che a tutta l’operazione avevano presenziato dei graduati e degli agenti di pubblica sicurezza. Sempre nei riguardi del nominato P. è poi risultato in causa che il giorno 28 marzo 1944, nell’abitazione di Duches Lina vedeva Parodi e del nipote di costei Sebastiani Guido, sita in Roma, via Pagliari […]; individui appartenenti alla guardia nazionale repubblicana trassero in arresto due ufficiali inglesi, prigionieri di guerra evasi dai campi di concentramento di Modena e di Chieti, i quali fin dal precedente mese di Gennaio avevano trovato ricovero nella casa della Duches. I due inglesi vennero consegnati al comando militare tedesco di Roma, e finirono deportati in Germania mentre la Duches e il Sebastiani anche essi tratti in arresto, vennero rinchiusi nelle carceri giudiziarie locali, dove rimasero fino alla liberazione della capitale. A questa operazione prese parte il P., che, con la pistola in pugno, tenne a bada la Duches e il Sebastiani, mentre i militi della guardia repubblicana ricercavano i due prigionieri e successivamente telefonò primo a sua moglie per avvertirla che avrebbe ritardato a rincasare e poi alla questura chiedendo l’invio di una macchina, giunta la quale egli vi salì per accompagnare i due inglesi al loro destino. Dopo il suo arresto, avvenuto a Firenze nel luglio 1945 il P. (che qualche tempo prima della liberazione di Roma aveva abbandonato la città ed era andato girovagando per l’Italia settentrionale) e interrogato dall’autorità P.S. a proposito della cattura dei due ufficiali inglesi, dichiarò che, essendo egli fiduciario del gruppo fascista repubblicano di piazza D’Armi; era stato avvertito da un segretario dello stesso gruppo; un certo prof. De Mattia, della presenza di essi in una casa di via Pagliari, ma che egli non aveva voluto interessarsi della faccenda. Di questa però gli parlò certo capitano Taggi della Guardia Nazionale repubblicana, persona da lui mai conosciuta, ed a cui certamente dovette rivolgersi il nominato De Mattia, il quale Taggi, dopo essersi a suo mezzo assicurato della delazione del De Mattia, gli ordinò di accompagnare i due sottufficiali della guardia nazionale da lui incaricarti a procedere alla cattura dei prigionieri. Alla quale operazione esso P. assistè pertanto materialmente, ma senza prendervi parte attiva, e anzi facendo in modo di evitare che venisse seguita una perquisizione nell’alloggio della Duches. Queste dichiarazioni il P. ripetè all’autorità giudiziaria nel corso dell’istruttoria, e confermò il dibattimento, aggiungendo di essersi interessato della cattura dei due prigionieri inglesi per una ragione morale, perché lo si tacciava di disinteressarsi dei suoi doveri di fiduciario del gruppo. Sulla scorta delle fin qui riassunte risultanze processuali, questo collegio reputa dimostrata la colpevolezza del P. Gaetano in ordine a tutti e tre le imputazioni stateli ascritte, anche se per una di queste si dovrà, per le ragioni che verranno esposte in seguito mutare la qualificazione giuridica del fatto addebitato. Come già si è detto, al P. è stato fatto carico del delitto di collaborazione con il nemico tedesco a mente degli aa. 5 D.L.L 27 luglio 1944 51 e 58 C.PM.G. per avere favorito le operazioni militari e i disegni politici dei tedeschi dando indicazioni che concorrendo materialmente alla cattura dei due prigionieri di guerra inglesi evasi, nonché dando ordini per il saccheggio di un deposito di roba di ebrei esistente presso il convento di Sant’Ambrogio del delitto di cui all’art. 605 C.P. ordinario, per avere privato della libertà personale gli anzidetti prigionieri, e infine del delitto di cui all’art. 419 dello stesso codice, per aver dato ordini e disposizioni nonché materialmente partecipato alla depredazione del summentovato deposito di robe. Ciò posto, si osserva anzitutto come sia stato rettamente configurato il concorso dei tre reati indicati; infatti la cattura dei prigionieri inglesi e il saccheggio del deposito di robe danno rispettivamente vita al delitto di sequestro di persona e a un delitto contro la proprietà e tutti e due insieme concretano il delitto di collaborazionismo politico e militare con il nemico tedesco. Non vi può essere dubbio in altri termini che nella specie ricorre esattamente l’ipotesi prevista nell’art. 81 prima parte C.Pen. ordinario, trattandosi di azioni cui mediante sono state violate diverse disposizioni di legge. Si osserva in secondo luogo non potersi dubitare che il fatto di avere partecipato alla cattura dei prigionieri di guerra evasi e l’altro fatto di avere concorso nella depredazione del deposito di robe appartenenti ad ebrei, estremizzino compiutamente altrettanti atti di favoreggiamento militare e politico del nemico, per un lato infatti si sa quanta importanza dessero i tedeschi al rintracciamento dei prigionieri alleati fuggiti dai loro campi di concentramento [riga non leggibile] guerra italiano, tanto da essersi indotti a pagare dei vistosi premi in denaro alle persone che denunciavano quei prigionieri o concorrevano alla cattura dei medesimi e a minacciare gravi rappresaglie alle persone che li nascondevano o comunque li aiutavano, e per un altro lato si sa pure che le persecuzioni contro le persone e gli averi degli israeliti furono imposte dai tedeschi al governo della cosiddetta repubblica sociale italiana, nell’intento di attuare anche sul territorio della penisola la loro implacabile politica razziale. Ma del pari è indubitato che il concorso prestato dal Gaetano P. nel rintracciamento e nell’arresto dei prigionieri di guerra evasi integra in tutti i suoi estremi obbiettivi e subbiettivi il delitto di sequestro di persona previsto nell’art. 605 prima parte C.P. ordinario, essendosi manifestamente trattato di un atto del tutto arbitrario e illecito, e anzi in pieno contrasto con quelle che erano le direttive politiche e militari del legittimo governo italiano, al quale atto poi difettavano nel P. qualsiasi vesti o facoltà o autorità che potessero in qual modo legittimar nella partecipazione. Di questa il giudicabile attentato di sminuire l’importanza e l’efficacia con l’affermare di essere stato un semplice e quasi passivo spettatore dell’operazione, ma su questo punto è stato categoricamente smentito dalla teste Duches Lina, che è la persona nella cui abitazione alloggiavano e furono catturati i due militari inglesi, la quale teste depose che il P. si mise subito la guardia al telefono per impedirle di rispondere ad eventuali chiamate e tenne a bada lei e suo nipote Sebastiani puntando contro di loro la pistola mentre gli accoliti della guardia nazionale repubblicana giravano per la casa e vi scovavano i prigionieri. Risulta inoltre per ammissione dello stesso imputato che fu questo a richiedere telefonicamente alla questura l’invio di due macchine sul posto onde poter condurre via i catturati. Ma sono altresì emersi in causa elementi che provano ciò che può definirsi la piena ed intera adesione morale del prevenuto alla cattura dei due prigionieri evasi, e di questi elementi il primo è stato fornito dalla nominata Duches quando dichiarò che il P., nel telefonare alla moglie per preavvisarla del suo ritardo a rincasare, informò alla suddetta con tono di grande soddisfazione di aver fatto una grossa e inaspettata preda. Negò alla pubblica udienza l’imputato di essere uscito in una simile espressione, ma la sua smentita non regge di fronte alla categorica e precisione affermazione della teste; e per di più viene destituita di ogni credibilità da quanto lo stesso P. ebbe a fatto di depredazione, non v’è però dubbio che lo stesso debba venir dichiarato colpevole di rapina aggravata a mente dell’art. 628 prima parte e ultimo capoverso n.2 C.Pen. ordinario, del quale reato concorrono manifestamente nella specie tutti gli estremi obbiettivi e subbiettivi. È certo infatti ed anzitutto che l’imputato prese parte alla sottrazione delle robe degli ebrei depositati e custodite nel convento di Sant’Ambrogio, se non proprio materialmente con il rimuovere, caricare e trasportare altrove quella roba, sicuramente però con il dare ordini disposizioni e istruzioni a riguardo, e ciò in modo tale da potersi ben dire che tutta quanta l’operazione venne diretta da lui. Né può giovarli la circostanza di avere egli ad un certo momento, consentito a sospendere l’asportazione della roba, perché si trattò di una pura e semplice dilazione, opinata la quale il P. si presentò nuovamente al convento e fu proprio lui che disse di aver avuto dalle superiori gerarchie fasciste l’ordine tassativo di portar via tutta la roba che era destinata all’assistenza pubblica, aggiungendo inoltre che tale destinazione era pure giustificata dal fatto che, almeno per una parte delle cose depositate nel convento, si trattava di merci vincolate e state sottratte al normale consumo. In secondo luogo va osservato che se non risulta che in tutti gli avvenimenti svoltisi nel convento di Sant’Ambrogio fra il 1 e il 4 aprile 1944 siano state messe in atto violenze contro le persone o minacce vere e proprie, materialmente intese, è certo però che vi fu una continua e insistente azione intimidatrice la quale traeva origine dalla qualità delle persone presentatesi nel convento a chiedere la consegna delle robe degli ebrei e dal contegno che le dette persone tenevano, qualità e contegno che dovevano essere per necessità di cose e specialmente se messi in rapporto con l’eccezionale politica del momento, in generale nell’animo dei religiosi, cui le robe degli ebrei erano state affidate, la convinzione che ogni resistenza sarebbe stata del tutto vana. Non vi era affatto bisogno che il P. e gli altri partecipi dell’impresa ricorressero a minacce o intimidazioni espresse ed esplicite, queste erano insite nel clima del momento, ed è appunto da tale clima che derivava per l’azione dell’imputato l’efficacia costrittiva dell’altrui volontà, efficacia che egli poi non mancava di corroborare richiamandosi agli ordini delle superiori gerarchie fascio-repubblicane e alludendo a violazioni delle vigenti leggi vincolative del commercio di determinate merci, la quale allusione poi implicava ovviamente l’accenno a responsabilità di carattere penale che i religiosi del convento avrebbero potuto assumere sia con l’avere accettato di nascondere le robe degli ebrei, sia col rifiutarsi di consegnarle. Si osserva in terzo luogo che a discriminare il P. dal reato in esame non può giovare la circostanza che la sottrazione delle robe degli ebrei avvenisse in presenza di funzionari ed agenti di P.S., perché se a costoro, data la situazione del momento, mancò l’animo di impedire ciò che indubbiamente costituiva un’azione illegale davanti alla legge comune e davanti al documento presentato dal priore del convento (da cui risultava che, per un accordo intervenuto tra il governo della Città del Vaticano e il comando militare tedesco di Roma, il detto convento doveva restare immune da perquisizioni e requisizioni), non per questo tale azione poteva mutare carattere, come se la semplice presenza di quei funzionari ed agenti valesse a [darne] l’illegalità. Era anzi proprio questa presenza che doveva meglio dimostrare ai religiosi del convento l’inutilità di una resistenza qualsiasi e la necessità di piegarsi ad imposizioni le cui ingiustizia ed iniquità erano palesi. In quarto luogo si osserva come sarebbe infondato l’obiettare che l’imputato non operò a proprio profitto, perché il fine di lucro, necessario ad integrare il delitto in esame, sussiste ugualmente e non cambia natura divenendo da ingiusto giusto e lecito, persone diverse dall’agente. Sembra che le robe degli ebrei asportate dal convento di S.Ambrogio siano andate a finire presso la federazione fascista repubblicana di Roma, dove poi se ne perderono le tracce, ma nulla importa di sapere se di essa trassero profitto i tedeschi e i repubblicani, e di questi la federazione fascista o la delegazione del partito pure esistente in Roma, certe si è che esse dovettero, in un modo o nell’altro, servire a qualcheduno, e primi a servirsene dovettero essere gli individui che il 1 Aprile 1944 si erano presentati al convento per prelevare e che poi le portarono via, essendo risultato in processo che, anche per ammissione del P., che i predetti individui si appropriarono di capi di biancheria, suscitando le proteste e le rimostranze dei religiosi del convento. E anche l’imputato sapesse qualche fine dovessero fare le cose sottratte, lo prova l’avere egli detto agli anzidetti religiosi che esse erano destinate all’assistenza pubblica degli sfollati e sinistrati di guerra, ciò che, anche ammesse che egli lo ritenesse per vero, non cambia affatto la cosa, ma conferma la consapevole volontà di P. per far sì che di quelle cose traessero vantaggio altre persone. Osserva ancora il Collegio che l’imputato ha pur creduto di difendersi con l’asserire che egli intervenne tanto alla cattura dei prigionieri di guerra evasi quanto alla spogliazione del deposito del convento di S.Ambrogio unicamente in seguito a ordini impartitigli da suoi superiori gerarchici e precisamente riguardo alla prima operazione per ordine di un certo capitano Faggi della guardia nazionale Repubblicana, e riguardo alla seconda per ordine dell’ingegnere Nereo Brega della delegazione Romana del partito fascista repubblicano. Ma la difesa non regge né in fatto né in diritto. Non regge in diritto, dopo che ripetute volte il G.I. ha avuto occasione di insegnare che nella materia soggetta non può farsi questione né di legittimità di ordini ricevuti, né della possibilità di un errore di fatto che abbia indotto chi ha ricevuto l’ordine a ritenerlo legittimo. Tutta la cosiddetta repubblica sociale italiana era affetta dal marchio della più radicale e irrimediabile illegittimità, e questo marchio colpiva pure immediatamente tutto quanto a nome di essa repubblica si veniva facendo, in qualunque campo, e per qualsiasi motivo, di propria iniziativa e per comando altrui, da tutti gli adepti, gregari, accoliti, servi e scherani di detta repubblica, chiunque essi fossero e qualsiasi attività essi svolgessero. Non è ammissibile che potessero considerarsi legittimi gli ordini di chi non aveva alcun potere di darne e non poteva darne che di illegittimi, mentre la persona che volontariamente si poneva al servizio di un simile illegittimo potere immediatamente si metteva nella condizione di dividerne le responsabilità per tutto quanto gli fosse ordinato di fare o non fare. Ma, come già detto, l’appunto del P. è infondato anche in line di fatto, e ciò si ricava dalle dichiarazioni dello stesso imputato. E’ vero che costui venne la sera del 1° aprile 1944, mandato al convento di S. Ambrogio dall’ingegnere Brega della delegazione del partito fascista repubblicano, ma è pur vero che il Brega ve lo mandò per fare una cosa perfettamente diversa da quella che il giudicabile si arbitrò di fare e fece in realtà di propria iniziativa dichiarò il Brega di avere saputo dall’allora federale di Roma Pizzirani che sedicenti agenti delle SS italiane, allegando ipotetici ordini della federazione fascista repubblicana, avevano tentato di impadronirsi di oggetti depositati da ebrei nel convento di S. Ambrogio, di aver avuto ordine dal Pizzirani di recarsi sul posto per impedire la cosa, e di avervi inviato in sua vece il P. con l’incarico di far cessare qualsiasi requisizione a nome del partito e di richiedere in caso incidente l’intervento della questura. Tali dichiarazioni sarebbero di per sé naturalmente sospette in quanto rese da un coimputato implicato nella medesima accusa rivolta al P., se non trovassero conferma nelle dichiarazioni di quest’ultimo, il quale disse di essere stato mandato dal Brega al convento di S. Ambrogio per chiarire la questione relativa ad una violazione degli accordi interventi tra il vaticano e il Comando tedesco della città. Ora, chiarire e dirimere una questione significa farla cessare e appianarla, mettendo fra loro d’accordo le parti in contrasto, e non già a risolverla a danno di uno dei contendenti, come invece ed appunto si arbitrò di fare il P., andando così al di là delle istruzioni ricevute. E’ anche vero che il P. disse di essere poi ritornato dal Brega per riferirgli quanto stava succedendo nel convento, e di avergli il Brega risposto di accertarsi se fra le persone colà presenti avessero trafugato della roba a proprio profitto per poi denunciato all’autorità giudiziaria, aggiungendo quanto alla roba rimasta che l’avrebbe fatta portar via per darla all’ente assistenziale. Quest’ultima aggiunta è stata presentata dal Brega, il quale affermò nel sempre ignorato il comportamento del P., e di non aver più saputo nulla della faccenda dopo che il suddetto lo avvertì dei trafugamenti commessi dagli individui entrati nel convento; ma, anche a voler ammettere per vero che il Brega avrebbe realmente detto al P. che avrebbe fatto porta via la roba colà rimasta per darla alla assistenza pubblica, è evidente che in queste parole non era affatto contenuto un ordine diretto personalmente al P.. Una cosa infattibile era dire al P. di portare o far portare via la roba, e altra e ben diversa dire che la roba sarebbe stata fatta portar via con le quali ultime parole non veniva già dato l’ordine da eseguire immediatamente ma si manifestava una intenzione a un proposito da tradurre in atto successivamente, devesi pertanto concludere che, quando il P. fece portar via dal convento di S.Ambrogio le robe degli ebrei, egli agì del tutto di sua testa adducendo dagli ordini che in realtà non aveva mai ricevuto. Quanto poi alla sua partecipazione alla cattura dei prigionieri di guerra evasi, disse al P. che essa gli era stata imposta da capitano Taggi della guardia repubblicana il quale aveva preteso che egli presenziasse all’operazione perché; ove questa non avesse dato esito, testimoniasse della falsità della delegazione del De Mattia, da cui era partita la segnalazione della presenza dei prigionieri in casa della Duches Lina. Ora, già l’appunto in sé medesimo considerate è poco conveniente, non vedendosi a che cosa avrebbe potuto servire, ai fini che l’imputato attribuisce al nominato Taggi, la presenza e la testimonianza di essere P., e ciò tenta più riflettendo che il Taggi aveva stabilito di far compiere la cattura, come in realtà avvenne da due graduati suoi dipendenti, mentre poi nulla avrebbe potuto impedire a Taggi di far intervenire nell’operazione lo stesso delatore De Mattia. Ma l’appunto non convince anche per un altro motivo, e questo si è che dall’eventuale mancato ritrovamento in casa della Duches dei due prigionieri non si sarebbe certo potuto infierire con assoluta sicurezza la falsità della delegazione del De Mattia. Nulla infatti poteva far escludere che, pur avendo costui detto il vero, i due prigionieri avessero nel frattempo mutato di ricovero, o per una loro spontanea determinazione o perché messi sull’allarme. Ma comunque sia di ciò, sia in linea di fatto che, per le loro rispettive qualità e mansioni, il Taggi di ufficiale della guardia repubblicana e il P. di fiduciario di un gruppo rionale, l’uno non aveva facoltà e veste di dare all’altro alcun ordine, onde anche se questo vi fosse pure stato, il secondo era perfettamente in diritto di rifiutarsi di obbedire al primo. La verità si è che il P. era individuo tutto orgoglioso e trionfo della carica di cui era stato investito, pieno di gelo nell’adempimento delle relative funzioni, e che si dava d’attorno a tutt’uomo per fare e strafare onde, come egli stesso dichiarò al dibattimento evitare la taccia di tiepidezza nell’adempimento dei suoi doveri di fiduciario rionale. E di questo zelo egli diede ampie e non equivoche tanto nel convento di S. Ambrogio quanto in casa della Duches Lina, nel primo posto assumendo sopra di se la direzione di tutta una faccenda e dando molto più in la delle istruzioni ricevute, e nel secondo posto partecipando attivamente all’operazione e quindi dimostrando a chiare note la sua soddisfazione del buon esito della stessa. Ciò ritenuto, osserva il Collegio come dall’aver votato la definizione giuridica dei fatti attribuiti al P. nella lettera e della rubrica a lui relativa, opinando cioè che quei fatti integrino il delitto di rapina aggravata anzi che quello contestato di saccheggio, deriva la conseguenza di doversi dichiarare amnistiato il delitto di collaborazionismo col nemico tedesco imputato allo stesso P. al monte dell’art. 5 D.L.L. 27 Luglio 1944 numero 4 – Premesso infatti che per l’applicazione dell’anzidetto beneficio non devesi, a mente dell’art. 11 ultima parte del sovracitato decreto presidenziale, tener conto dei precedenti penali dell’individuo, trattandosi nella specie di un reato politico, si rileva che l’unico ostacolo per l’applicazione dell’amnistia in discorso era rappresentato dall’essere il P. accusato di aver commesso fatti di saccheggio. E dicesi unico ostacolo perché l’art. del richiamato decreto presidenziale esclude l’applicazione dell’amnistia per capi di reati politici commessi a scopo di lucro e da persone rivestite di elevate funzioni civili, politiche e militari, e per casi in cui siano stati perpetrati fatti di strage, sevizie efferate omicidio o saccheggio. Ora è evidente che nella specie non ricorre l’eccezione dell’elevatezza delle funzioni in cui il giudicabile era investito, perché la carica di fiduciario di un gruppo rionale (la cui nomina e revoca erano rimesse al segretario della locale federazione fascista) non importava alcuna elevata funzioni di direzione civile e politica. Ma neppure ricorrere l’eccezione dello scopo di lucro perché questo non è risultato in causa per nessuno degli addetti mossi al P., cioè ne per la cattura dei prigionieri alleati evasi, ne per la depredazione del deposito delle robe degli ebrei al convento di S. Ambrogio circa la quale si è già detto che egli non vi partecipo per profitto personale. Non poteva per tanto rimanere all’altra eccezionale all’infuori di quella costituita dai fatti di saccheggio ma essendo stato eliminato tale reato per le ragioni già spiegate, ne segue esser da dichiarare non doversi procedere contro il P. in ordine all’addebito di collaborazionismo col nemico tedesco per estinzione del reato in forza di amnistia. Per esaurire poi nei riguardi P. Gaetano l’argomento dei benefici portati dal già tanto Decr. Pres. 22 Giugno 1946 n° 4 s’osserva che il predetto imputato è in condizione di poter godere anche dell’indulto concesso con quel decreto sia per delitto di sequestro di persona sia per l’altro di rapina aggravata. Quest’ultimo reato infatti, per l’art. 10 n.3 del decreto presidenziale in parola, è compreso tra quelli in cui non può applicarsi il beneficio del condono, accentuato però il capo che siano stati commessi per motivi politici. Ora non v’è dubbio che una simile eccezione ricorra nella specie, in quanto la rapina in discorso fu determinata dal motivo politico di aiutare i nazi-fascisti nei loro disegni politici di rastrellare e sterminare gli ebrei e impossessarsi dei loro beni, mentre d’altro lato esiste la connessione di cui nella prima parte precedente art. 9 dello stesso decreto presidenziale, donde viene al P. dovrà applicarsi il condono di cui all’art. 9, prima parte lettera c ) del Drec. Pres. 22 Giugno 1946 n° 4 per entrambi i delitti di cui negli art. 605 e 628 C. Pen. ordinario. Né infine, per l’applicazione del beneficio dell’amnistia del condono al primo dei due summenzionati reati, come anche per l’applicazione del beneficio dell’amnistia all’altro reato di collaborazionismo col nemico tedesco, può fare ostacolo il disposto dell’art. 13 del medesimo decreto presidenziale, dove si statuisce che sono esclusi tanto dall’amnistia che dall’indulto i reati commessi a danno delle forze alleate e dei loro appartenenti. Sembra infatti evidente che la cattura di prigionieri in territorio occupato dai tedeschi, non possa costituire un reato commesso in danno delle forze alleate degli appartenenti a questa, e ciò per la ragione che i militari alleati, una volta fatti prigionieri, avevano la norma delle convenzioni, degli usi e delle consuetudini militari internazionali di guerra, pur conservando la qualità dei militari perduto però l’altra, che è quella essenziale, di appartenenti alle forze attive combattenti, donde segue che la cattura dei predetti recava offesa soltanto alla loro libertà privata e individuale e non più alle forze combattenti cui avevano cessato di appartenere, senza che a ciò nulla possa mutare il fatto che la loro cattura rappresentasse anche un aiuto indiretto portato al nemico tedesco. E quanto poi al reato di collaborazionismo, si osserva che esso non può aversi come perpetrato a danno dello stato italiano, del che è riprova il suo concretarsi mediante attività criminose costituenti altrettante forme specifiche di tradimento. Rileva ancora il Collegio che per P. è stata chiesta la concessione delle circostanze attenuanti generiche di cui nell’art. 62 C. Pen. ordinario. Avvisa la Corte di dover rigettare l’istanza, ed a far ciò la persuade la considerazione dello zelo particolarmente fazioso posto dall’imputato nell’espletamento di quelli che egli con boriosa disinvoltura definiva e tuttavia definisce come doveri della sua carica. Il quale zelo, come già s’è osservato, ebbe occasione di manifestarsi in una forma che buon dirsi ripugnante nell’episodio della cattura dei due prigionieri alleati evasi, operazione questa a cui il P. non avevano alcun dovere o necessità di applicarsi e la cui riuscita fu per lui motivo di grande soddisfazione, tanto più riprovevole in quanto egli non poteva certo ignorare a qual sorte i tedeschi avrebbero destinato i due catturati. In ultimo si rileva che per P. fu fatto cenno alle circostanze attenuante previste nell’art. 26 C. Pen. Militare di Guerra, costituenti un ulteriore beneficio a lui concedibile per essere egli un valido della guerra Italo-Austriaca 1915-1918 fruente di posizione militare privilegiata. Ma l’accenno non merita alcun seguito pel semplice quanto assorbente motivo che l’ha summentovata sol quanto trattasi di reati previsti dai reati delle legge penale e militare e non possono applicarsi per ciò ai reati contemplanti dal codice penale ordinario. Passando a vagliare le responsabilità dell’altro imputato Brega Nereo, va ricordato essersi a costui contestati i diritti di collaborazione con nemico tedesco, di concorso in rapina, di oltraggio con violenza al pubblico ufficiale e di sequestro di persona per ave egli favorito i disegni politici dei tedeschi col prestare servizio presso la federazione fascista repubblicana di Roma alle dipendenze del federale Pizzirani, sottratto a scopo di lucro, usando violenza e minacce con religiosi del convento di S.Ambrogio che le detenevano carte e valigie contenenti indumenti e merci di proprietà degli ebrei Sonnino, Tagliacozzo ed altri, offeso l’onore e il prestigio del sottotenente Pani Tullio, ufficiale della PAI nonché percosso in medesimo cagionandogli lesioni guaribili in dieci giorni e privato della libertà personale l’ansi detto ufficiale e vice-brigadiere dello stesso corpo Vetri Enrico, conducendogli alla sede della federazione fascio repubblicana di Piazza Colonna, ed ivi facendoli abusivamente chiudere entro una stanza in stato di fermo. Ciò premesso, osserva il collegio che il reato di collaborazionismo politico col nemico tedesco ascritto al Brega sarebbe fra quelli compresi nella amnistia largita dall’art. 3 Decr. Pres. 22 Giugno 1946 n.4 non concorrendo nella specie nessuna delle circostanze e condizioni che a monte dello stesso articolo ostano all’applicazione dell’anzidetto beneficio ma poiché dagli atti processuali, confortati altresì dall’emergenze del dibattimento, è emerso che il giudicabile non commise alcun fatto valido a integrare il reato in questione, cosi la Corte seguendo la norma disposta nel capoverso dell’art. 152 C. Proc. Penale, ritiene che debba essere assoluto esso Brega con la formula corrispondente. È risultato infatti che tutta l’attività prestata dall’imputato presso la federazione fascista repubblicana di Roma alle dipendenze del federale, Pizzirani, si esaurì nell’occuparsi e del dirigere i trasporti automobilistici dei civili dal fronte di combattimento a Roma e in altre località della zona Laziale, operazioni queste nelle quali evidentemente nulla ricorre che possa comunque atteggiarsi come un aiuto prestato agli invasori tedeschi. Eppertanto il collegio avvisa di mandare assolto il Brega dall’imputazione in discorso per non aver egli commesso il fatto che la costituisce. A identica soluzione ritiene poi la corte di dover giungere per quanto riguarda il delitto di rapina pure addebitato al Brega. È invero rimasto provato in causa che l’imputato mandò al convento di S. Ambrogio il P. non già con l’ordine di far trasportare altrove il deposito delle robe degli ebrei colà esistente, ma solo con ben diverso e più limitato incarico di appianare la questione ivi sorta circa la immunità del convento da perquisizioni e di cercare di mette d’accordo i religiosi del convento con le persone che pretendevano da costoro la consegna delle robe degli ebrei. Reputa inoltre il collegio di avere buone ragioni per dubitare che il Brega abbia in realtà detto quanto gli attribuisce il P., ossia precisamente che avrebbe fatto portare via le robe degli ebrei per dare alle opere assistenziali, ma fosse pur vero un tanto non per questo sarebbe sufficiente a far ritenere il Brega partecipe responsabile dell’avventa sottrazione. Si e già osservato infatti come quelle parole non potevano contenere che la manifestazione di una intenzione o di segno o proposito da attuarsi in un momento successivo, e la cui attuazione si intende da parte di esso Brega, poteva si verificarsi, ma poteva anche mancare. E mentre è certo che le intenzioni o propositi pur criminosi non sono suscettibili di alcuna punizione, anche se manifestati, e altrettanto certo in linea di fatto che il P. percorso i tempi, e agendo di propria ed esclusiva iniziativa fece senza ulteriori ritardi asportare le robe degli ebrei, ponendo in atto un proposito che era divenuto tutto ed esclusivamente suo. Deve dunque il Brega venire prosciolto dal delitto di rapina imputatagli per non avere commesso il fatto che lo costituisce. Si osserva ancora che, per l’altro reato di oltraggio con violenza a pubblico ufficiale ascritto al Brega costui è in condizione di fruire del beneficio dell’amnistia largita con l’art. 1 del ridetto Decr. Pres. 22 Giugno 1946 n.4, a ciò non ostando i precedenti penali di esso imputato, onde di tale reato dovrà essere dichiarata l’estinzione a seguito di sopravvenuta amnistia. Rimane cosi a discorrere dell’ultimo a debito levato contro il Brega, e precisamente dall’imputazione di sequestro di persona, rispetto alla quale è da dirsi che i fatti, senza alcun dubbio esistenti nella loro materialità, avvennero nei modi e nelle circostanze che qui si espongono. Il 3 aprile 1944 il sottotenente della PAI Pani Tullio e il vice-brigadiere dello stesso corpo Vitri Enrico brigadiere furono invitati a pranzo da certi Forchini B. e F. Franco. Dopo aver desinato insieme in un ristorante sito nei pressi del Corso Umberto, il F. Franco invitò gli altri suoi commensali a recarsi alla propria abitazione, sita in via del Portico di Ottavia N. 39, per bere in compagnia un bicchierino di liquore i quattro si trovarono così riuniti nella casa del F. Franco, quando si presentarono due individui vestiti in borghese (uno dei quali era il Brega) che invitarono il F. Franco e il Forchini ad uscire con loro e a seguirli. Intervennero allora il Pani e il Vitri, e tale intervento determinò un concitato diverbio fra i fra i due predetti e i due sopraggiunti; Diverbio causato principalmente dalla reciprocamente pretesa esibizione dei documenti personali, e durante il quale il Brega giunse al Pani di tacere se non volesse che gli sparasse addosso. L’alterco ebbe presto fine con la uscita di tutti dalla casa del F. Franco e con la loro andata alla sede della federazione fascista repubblicana di Piazza Colonna – quindi giunti, il Brega fece condurre il F. Franco e il Forchini in una stanza, e fatti passare quindi il Pani e il Vitri nel suo ufficio, si scagliò contro il Pani percotendolo con dei pugni e investendolo con le parole; “tu non sei ufficiale, sei una merda, merda è tutta la PAI, ti insegno io a fare la borsa nera”. Dopo di che il Brega fece uscire il Pani, e di li a poco anche il Vitri, cui nel frattempo aveva rivolto altre parole offensive; e infine li fece rinchiudere in una stanza e piantonare da due militi armati. Il Pani e il Vitri trovarono però di un mezzo di avvertire del fatto i loro superiori, e verso la sera nello stesso giorno per l’intervento di un maggiore della PAI furono rilasciati. Giunti dai fatti a conoscenza delle autorità di P.S. questa indagò per accertare le ragioni dell’andata del Brega in casa del F. Franco e così si poté appurare che l’azione dell’odierno prevenuto era stata determinata da notizie giunte alla federazione repubblicana intorno alla losca attività svolta da Forchini Bixio e danno dell’ebreo Frascati Romolo, cui il Forchini avrebbe carpito una somma di oltre 200 mila lire in parte con la promessa di aiutarlo per ottenere la liberazione del padre di esso Frascati, arrestato per motivi razziali in parte con pretesto che occorreva del denaro per corrompere un militare tedesco che intendeva procedere all’arresto del medesimo Frascati. Le notizie pervenute in via confidenziale alla federazione repubblicana riguardavano poi anche il F. Franco per modo poco chiaro onde sembrare che egli fosse venuto in possesso di un’automobile FIAT 1500 già appartenuta ad un altro ebreo, certo Calò Anselmo e Roberto che era cognato del nominato Frascati Romolo. Di tali notizie era stata tramite certa Roncoroni Lisetta vedova Reggiani, abitante nello stesso stabile ove risiedeva il F. Franco che conosceva il Brega Nereo e presso la quale aveva per qualche tempo alloggiato l’ebreo Frascati Romolo, che dopo essersi allontanato lo aveva lasciato in custodia alcuni indumenti personali. E, sempre secondo le ridette notizie confidenziali il militare tedesco che doveva procedere all’arresto dell’ebreo Frascati Romolo, si identificava o almeno avrebbe potuto identificarsi col vice-brigadiere della PAI Vitri Enrico, che era nato a Vienna e parlava correntemente la lingua tedesca. Ora, che l’imputato Brega siasi recato nell’abitazione del F. Franco unicamente in seguito alle notizie confidenziali di cui prima si è detto, e al solo scopo di appurare quanto in esse vi fosse eventualmente di vero nei riguardi sia del Forchini che del F. Franco, lo conferma la circostanza rimasta provata in processo che, una volta giunti alla sede della federazione repubblicana il Brega interrogò il F. Franco sull’affare dell’automobile appartenente all’ebreo Calò sia sulla truppa consumata dal F. Bixio a danni dell’altro ebreo Frascati, della qual truffa una parte del compendio si sospettava che il Forchini avesse rimesso al F. Franco, e avesse servito a quest’ultimo per l’acquisto dell’automobile del Calò. Ma ciò è altresì confermato dalla altra circostanza, pur rimasta provata che il Brega non conosceva affatto né il F. Franco né il Vitri, e nemmeno gli ebrei Frascati e Calò; e ignorava inoltre dove abitasse in Roma il F. Franco, dal che segue che egli non avrebbe potuto recarsi così a colpo sicuro nella casa del F. Franco se non a seguito di segnalazioni pervenutegli. Il Brega invece conosceva il Forchini, perché costui apparteneva alla federazione fascista repubblicana di Roma, dove era stato segnalato come individuo di precedenti poco puliti nonché come assai amico del F. Franco e a una sorella di questi, ai quali pel tramite del sottotenente Pani, aveva potuto procurare l’autorizzazione necessaria per ritornare a risiedere con la famiglia da Velletri a Roma. Le risultanze processuali di cui sopra è cenno sono state riferite perché da esse può trarsi che il Brega sia effettivamente intervenuto, come egli sostiene, nella casa del F. Franco soltanto allo scopo di chiarire quanto vi fosse di vero nelle notizie confidenziali ricevute e quindi per un fine del tutto onesto e lecito. Ma da quanto sovra detto si può altresì ricavare, se non proprio la certezza, quanto meno il fondato dubbio che il Brega sia stato indotto a trattenere contro la loro volontà nella sede della federazione repubblicana il Pani e il Vitri dal sospetto natogli che costoro avessero avuto una qualche parte nelle poco chiare faccende attribuite al F. Franco e al Forchini, e che gli stessi volessero proteggere i due predetti individui ed aiutarli a sottrarsi agli accertamenti che si fossero voluti fare in merito alle accuse loro rivolte. Il quale dubbio si converte e risolve nella possibilità che lo imputato agisse con l’intima convinzione di commettere un atto non illecito, ma bensì giustificato dal contegno che il Pani e il Vitri stavano tenendo. Eppertanto ritiene il Collegio che il Brega debba andare assolto dall’imputazione di sequestro di persona per insufficienza di prove sull’elemento intenzionale del reato l’uso della qual formula dubitativa si giustifica anche col riflettere che l’azione del Brega poteva pure essere determinata da un sentimento tutto personale di astio contro il Pani e il Vitri, conoscendosi il poco buon sangue che correva fra tutte le diverse forme di polizia nate e fiorite nella repubblica mussoliniana e altresì col pensare che il fermo del Vitri e del Pane [Pani] non era poi a rigore né necessario né opportuno, dato che per la loro qualità i due predetti sarebbero sempre stati facilmente rintracciabili. Viene ora in esame la posizione dell’imputato De Mattia Giuseppe al quale vennero contestati i reati di cui agli art. 5 D.L.L. 27 luglio 1944 n°159,51 e 58 C.Pen. Militare di Guerra, 605 e 110 C.Pen. Ordinario, per avere favorito le operazioni militari e i disegni politici del nemico tedesco dando indicazioni circa il luogo ove eransi rifugiati in Roma due prigionieri alleati [ill.] e così provando l’arresto di essi e delle persone che li ospitavano, nonché per avere concorso con altri individui appartenenti a una formazione militare repubblicana a privare gli anzidetti prigionieri della libertà personale. Si osserva anzitutto essere in causa rimasto perentoriamente escluso che il De Mattia abbia avuto una qualsiasi parte nella cattura dei due prigionieri di guerra alleati, s’è già visto infatti che tale operazione venne compiuta da tre persone che erano i due sottoufficiali della guardia nazionale repubblicana incaricati della bisogna e mandati in casa della Duchessa Lina dal nominato capitano Taggi, e il coimputato P., che volontariamente accompagnò e coadiuvò gli anzidetti sottoufficiali. All’infuori dei tre ridetti individui nessuna altra persona ebbe parte nella cattura dei prigionieri e quindi l’imputato deve essere prosciolto dal delitto di sequestro di persona con la formula di non averne commesso il fatto. Né a ciò si potrebbe obbiettare che nella delazione operata dal De Mattia a danno dei due prigionieri non poteva non essere implicita la volontà che gli stessi venissero catturati, onde, pur mancando il concorso materiale, sussisterebbe sempre il concorso morale dell’imputato nella perpetrazione del delitto di sequestro di persona statogli addebitato. L’obbiezione sarebbe ed è del tutto infondata, chiaro essendo che la segnalazione della presenza di prigionieri evasi e la cattura di questi sono due fatti per se stanti, l’uno indipendente dall’altro dansi vita a due reati ciascuno dei quali è del tutto autonomo rispetto all’altro e altrettanto chiaro essendo che nella determinazione volitiva delle persone che concepirono ed attuarono la cattura dei prigionieri la volontà del De Mattia non ebbe alcuna parte o peso che dir si voglia. Devesi per contro affermare senza dubbi di sorta la responsabilità del prevenuto in ordine all’imputazione di collaborazione con il nemico tedesco. Va anzitutto ritenuto certo che la segnalazione della presenza dei due prigionieri in casa della Duchessa partì dal De Mattia, e ciò è provato dalle affermazioni del coimputato P., fatto sia all’autorità di P.S., sia nel corso dell’istruttoria, sia in sede di dibattimento, e secondo le quali fu il De Mattia a render nota a esso P. la presenza dei prigionieri nonché ad insistere reiteratamente perché il P. ne interessasse chi poteva procedere alla cattura degli stessi. La difesa del giudicabile ha assunto trattarsi di una chiamata di correo inattendibile perché interessata in quanto il P. aveva tutto l’interesse di dimostrare che egli era stato soltanto un esecutore materiale dello arresto dei prigionieri ma che il vero e maggior responsabile era il delatore. Ma l’assunto non regge perché il P. non ha mai nascosto di essersi reso, se non addirittura di più, per lo meno altrettanto delatore quanto il D., avendo egli sempre confessato che, chiamato dal capitano Taggi della guardia repubblicana, ripetè, confermò e in un certo senso fece propria la segnalazione del D., nonché, dietro invito del Taggi, la fece ripetere e meglio osservare dal predetto onde può ben dirsi che se le informazioni dell’imputato furono prese sul serio dal Taggi, ciò si dovette proprio ed essenzialmente all’intervento del P.. Si sono poi avute in processo le deposizioni dei testimoni Garroni e Mariani, aventi entrambi appartenuto al gruppo rionale fascista repubblicano di piazza d’Armi, di cui frequentavano abitualmente i locali, e di costoro il primo dichiarò che, trovandosi una sera nella sede del gruppo, sentì il fiduciario P. che parlava con altri frequentatori del locale della cattura di due prigionieri alleati, stati arrestati presso una famiglia di Roma, e che diceva di non avere potuto fare avere al professor D. il compenso da lui insistentemente richiesto, e che il D. avrebbe dovuto rivolgersi direttamente alla milizia perché era questa che s’era interessata della cosa. A sua volta il Mariani depose che, trovandosi una sera nella sede del gruppo rionale, presenziò a una discussione fra il P. e il D. (da lui ben conosciuto) ed ebbe così modo di sentire il D. insistere perché il P. si interessasse presso le competenti autorità perché gli venisse pagato il premio che gli spettava per avere egli segnalato la presenza in una casa privata di Roma di due militari alleati evasi dalla prigionia, che a seguito della sua segnalazione erano stati poi catturati. La difesa dell’imputato ha creduto di poter dimostrare la inattendibilità e l’irrilevanza delle surriportate testimonianze facendo, quanto a quella del Garroni, osservare che costui non conosceva di persona il De Mattia, e quindi non era in grado di identificarlo. Il che è esattamente vero, e fu proprio il testimone a dichiararlo, aggiungendo poi che, appunto perché egli non conosceva il D., non poteva dire che costui fosse oppur no presente al discorso dal P. e da lui ascoltato nella sede del gruppo. Ma il valore della testimonianza del Garroni sta nel fatto di avere costui deposto di aver sentito il P. parlare, in un’epoca non sospetta, del De Mattia come della persona che pretendeva di essere ricompensato per aver segnalato la presenza di due prigionieri alleati che erano stati poi arrestati in seguito alle sue indicazioni. Quanto poi alla deposizione resa dal Mariani, la difesa del giudicabile ha pensato di invalidarne la credibilità assumendo che il teste è un vecchio arnese del gruppo rionale di Piazza d’Armi, completamente dedito e devoto al P., e d’accordo con lui, cose queste che non sono affatto risultate dal processo, e che non si sa donde possano essere state ricavate. E sempre poi allo scopo di dimostrare la falsità del predetto testimone, i difensori del De Mattia hanno affermato che il Mariani fu smentito dai testi a difesa Donmarco e Pantano, aventi concordemente dichiarato che mai nella sede del gruppo era stato tenuto quel discorso o s’era avuta quella contestazione nella quale l’odierno prevenuto avrebbe reclamato il premio dovutogli per la cattura dei prigionieri. Ora è chiaro che l’assunto della difesa potrebbe avere un qualche valore a tre condizioni, e cioè che il Mariani avesse precisato il giorno e l’ora della discussione a suo dire passata fra il De Mattia e il P. circa il premio per la cattura dei due prigionieri, che lo stesso Mariani avesse detto che tale discussione era stata ascoltata anche dai nominati Donmarco e Pantano, e infine che costoro si fossero trovati presenti nei locali del gruppo tutte le volte che vi erano il P. e il D. Ma né il Mariani ha precisato il giorno e l’ora della discussione, né i nominati Donmarco e Pantano hanno potuto dire di essersi trovati nella sede rionale ogni volta che v’eran pure il P. e il De Mattia; dal che segue immediatamente non potersi escludere che la discussione ricordata dal Mariani abbia avuto luogo in assenza del Donmarco e del Pantano. E’ vero poi che il Mariani dichiarò che presente alla ridetta discussione era pure il Pantano, ma dire presente non equivale necessariamente a dire che il Pantano aveva sentito i discorsi del P. e del D., onde l’avere il Pantano dichiarato di non aver sentito quel discorso non implica affatto una smentita della affermazione del Mariani circa la presenza di esso Pantano nella sede del gruppo. E del resto anche l’altro teste Gazzoni [Garroni] depose sembrargli di ricordare che, quando il P. tenne il discorso del premio preteso dal De Mattia (al quale discorso non poteva dire se assistere oppure no costui) fossero presenti il Donmarco e il Pantano, ma non per questo soltanto la difesa del giudicabile ha creduto di potere invalidare la credibilità della testimonianza. I difensori del De M. hanno poi indotto e fatto esentare dei testimoni per porre in essere che il loro raccomandato era stato sanguinosamente offeso dai tedeschi nell’onore e negli affetti, perché in una certa occasione la moglie sua era stata sottoposta a torture e a violenza carnale da alcuni militari germanici, donde la assoluta impossibilità morale che egli potesse in alcuna guisa collaborare a loro favore, e in ogni caso e subordinatamente la necessità di riconoscere a favore del prevenuto il vizio di mente totale o quanto meno parziale per lo sconvolgimento causatogli dalla atroce disgrazia che lo aveva colpito. Ora non è certamente questo (anche perché sarebbe ingeneroso) né il luogo né il momento di fare della falsa ironia, ma è evidente che l’assunto e la pedissequa richiesta della difesa hanno per base comune un ragionamento di questa sorte: se, dopo quello che i tedeschi gli avevano fatto passare e patire, il De Mattia si era deciso ad aiutarli bisogna per forza ammettere che egli avesse perduto il ben de l’intelletto, se non proprio del tutto, certo però in una misura tale da non poterlo più considerare come una persona capace di valutare la gravità e la portata dei suoi atti. Ma a un simile ragionamento, che in sostanza si risolve in un luogo comune del discorso corrente si risponde facilmente con un altro luogo comune del medesimo discorso, quando si dice (e purtroppo lo insegna e conferma l’esperienza di tutti i giorni) che le disgrazie della vita tolgono tutto all’infuori della capacità di intenderle e di soffrirne, e che purtroppo non si diventa pazzi per il dolore. In ogni modo, cosa decisiva si è che nessun elemento è risultato in causa da cui sia possibile inferire che il prevenuto soffrisse di una qualsiasi menomazione delle sue facoltà intellettive e volitive e nemmeno di una qualunque forma di squilibrio mentale, menomazione e squilibrio si intende che fossero clinicamente rilevabili e ad apprezzabili mentre per contro v’è un fatto che persuade subito ad escluderli, e che è dato da l’avere sempre il D. continuato a svolgere la sua attività professionale di docente in una scuola media. E d’altra parte non v’è nulla di strano e tantomeno di impossibile nel pensare ed ammettere che l’odierno giudicabile fosse uomo capace di porre le sue convinzioni politiche al di sopra dei suoi odi e risentimenti privati, e di distinguere e separare quella che era la responsabilità di alcuni singoli individui, non riversandola impersonalmente su tutta la gente tedesca che occupava il territorio italiano. Osserva in secondo luogo il Collegio che la delazione dei due prigionieri alleati evasi, sicuramente e con piena volontà e consapevolezza commessa dal D., costituisce senza alcun dubbio un atto di aiuto al nemico tedesco, aiuto che per avere carattere indiretto ed essere di natura politica e non militare, importa l’applicazione delle meno gravi sanzioni di cui nell’art. 58 C.P. militare di guerra e non di quelle stabilite nell’art. 51 dello stesso codice. Non può essere seguita poi la difesa del prevenuto nelle sue richieste di applicazione dell’art. 55 C.Pen.; militare di guerra (agevolazione colposa) e dell’art. 114 C. Pen. ordinario (concorso di minima importanza per la preparazione e esecuzione del reato). Tali richieste sono state fondate sull’assunto che tutti i frequentatori del gruppo rionale di Piazza d’Armi parlavano già da tempo della presenza di due prigionieri alleati, per il che il D. non avrebbe fatto allora che unire la sua voce a quella altrui senza un fine particolare e per non mostrarsi meno zelante, con un atteggiamento non doloso, ma soltanto imprudente, mentre poi, dato che il D. non aveva fatto la delazione che in conseguenza degli altrui precedenti discorsi la sua attività aveva avuto una minima importanza nella preparazione del reato essendo egli rimasto estraneo all’esecuzione. Ciò posto, si osserva anzitutto come sia infondata la distinzione fatta dalla difesa tra preparazione ed esecuzione del reato, perché la delazione era già perfetta e confermata non appena il De Mattia segnalò la presenza dei due prigionieri di fiduciario del gruppo P.. Ma l’assunto della difesa è altresì smentito dalle risultanze di fatto della causa, dalle quali emerge che, se realmente nel gruppo rionale di Piazza d’Armi tutti parlavano dei due prigionieri alleati, tali discordi avvenivano però a cose fatte, cioè dopo che i due prigionieri erano stati catturati, e tutti ne parlavano perché il primo a discorrerne con petulante insistenza era il D., a ciò spinto dalla ragione di cui si dirà in seguito. Non è vero pertanto, o almeno non è affatto provato che l’odierno giudicabile abbia appreso da altri l’esistenza dei prigionieri evasi, è invece provato che furono gli altri che lo appresero da lui, e dopo che tutta la faccenda era stata condotta a termine. Donde segue che niente è risultato in processo che possa invalidare l’affermazione del P. di aver egli appreso l’esistenza dei prigionieri dal D., che fu il primo a discorrergliene e ad insistere perché interessasse chi poteva eseguirne la cattura. Né ciò contrasta con quanto in è stato in precedenza osservato a proposito della parte avuta in tutta la faccenda dal P., là dove si disse che se le informazioni del De Mattia erano state prese sul serio dal nominato capitano Taggi, un tanto era dipeso principalmente dall’intervento del P.. E’ chiaro che l’importanza della parte svolta dal P. non esclude affatto di per sé l’importanza di quella avuta dal D.; l’una si aggiunse all’altra, e tutte e due contribuirono a persuadere il Taggi dell’opportunità di organizzare la cattura dei prigionieri con la seria e fondata prospettiva del buon esito dell’operazione. E’ stato prima accennato all’aspetto pecuniario della [ill.] o tale accenno si giustifica in rapporto alla richiesta subordinata della difesa dell’imputato perché la scrittogli reato di collaborazionismo col nemico tedesco sia dichiarato amnistiato ai sensi dell’art. 3 del Decreto Presidenziale 22 giugno 1946 n 4-Il Collegio ritiene inaccoglibile la richiesta, essendo rimasto provato in causa che il De Mattia agì a fine di lucro, cioè col propositi di guadagnare il premio che veniva concesso a chi partecipava o comunque procurava la cattura di militari alleati evasi dalla prigionia. In tale punto infatti non possono sussistere dubbi di alcuna sorta in base alle dichiarazioni rese dal coimputato P. e dai testi Garroni e Mariani, i quali concordemente dissero e sempre ripeterono che il D. interessava continuamente il P. perché lo aiutasse a riscuotere il premio della avvenuta cattura. Solamente in sede di dibattito è stato per la prima volta assunto che le insistenze dell’imputato avrebbero avuto come unico motivo il desiderio di devolvere l’importo di detto premio a beneficio delle opere assistenziali ma il Collegio non reputa attendibile questa asserzione pur se il P. che mai nei suoi ripetuti interrogatori l’aveva comunque accennata; non escluse che ella potesse corrispondere a verità, e mentre i testi Garroni e Mariani deposero concordemente di nulla avere mai sentito dire di simile né dal De Mattia né Da alcun altro frequentatore del gruppo rionale. La nemmeno la difesa del giudicabile ha dimostrato di prestarvi seria fede quando ha sostenuto che le insistenze del suo raccomandato tendevano ad evitare che del premio della cattura approfittasse il P., e quando ha aggiunto che in ogni caso si sarebbe trattato di un proposito sorto dopo il fatto. Trattasi adunque di argomentazioni prive di qualsiasi controllo e fondamento in risultanze obbiettive di causa, e che anzi contrastano con la circostanza, rimasta provata, che il P., per soddisfare in qualche modo le pretese di compenso del D., gli fece tenere un pacco di cibarie, pacco che in un primo momento venne respinto dal De Mattia, ma che poi successivamente venne accettato. Come, per la condizione ostativa del fine di lucro, l’imputato non può godere del beneficio dell’amnistia concessa pei reati politici con l’art. 9 del Decre. Pres. 22 giungo 1946 n° 4, capv, per essersi egli reso latitante, non può, usufruire dell’indulto accordato pei reati della stessa indole con l’art. 9 del medesimo decreto presidenziale. Reputa infine la Corte di dover accogliere l’istanza della difesa del De Mattia per la concessione del beneficio delle circostanze attenuanti generiche di cui nell’art. 62 bis C.Pen ordinario, e ciò in considerazione del fatto rimasto provato attraverso i deposti di testimoni indotti a difesa che in tempi passati l’imputato dimostrò benevolenza e fu anche largo di aiuti verso persone perseguitate e condannate al confino politico e per antifascismo. Vi è nell’attuale processo un gruppo di imputati rinviati a giudizio per rispondere del delitto di ricettazione a mente degli art. 110 e 648 C.Pen. ordinario essi sono B. Vittorio, T. Amalia, B. Mario e B. Anita, a carico dei quali fu lanciata la comune e congiunta accusa di avere al fine di procurarsi un ingiusto profitto, occultato nelle proprie abitazioni oggetti di provenienza furtiva, e precisamente oggetti facenti parte del deposito delle robe degli ebrei esistente nel convento di S. Ambrogio e che era stato depredato fra il 1 e il 4 aprile 1944. L’accusa partì da certa Sonnino Laura, abitante in Via S. Ambrogio n 7, in prossimità del convento omonimo, che è una delle persone che avevano depositato le proprie robe nel convento medesimo, e che in un suo esposto del 29 luglio 1944 presentato all’autorità di P.S. dichiarò risultarle che uno dei componenti la squadra dei saccheggiatori del convento (tale B. Lionello) aveva portato parte degli oggetti colà sottratti nella casa di un suo fratello, tale B. Vittorio, abitante in Via S. Ambrogio [...], vicino all’ingresso del convento, che due giorni dopo il B. Lionello era stato veduto da lei mentre portava via dalla casa del fratello Vittorio alcuni fagotti o balle contenenti le robe di essa Sonnino, caricandole su una carrozza col mantice rialzato, che certo B. Mario, cognato del B. Vittorio, aveva anche lui portato via della roba dalla casa del cognato, e che il detto B Vittorio, da essa Sonnino interpellato le aveva detto che si trattava di cose di sua proprietà mentre invece essa riteneva per la coincidenza della data, che si trattasse di cose sue. Esiste poi fra gli atti di causa un altro esposto della medesima Laura Sonnino, presentato all’autorità giudiziaria, nel quale l’esponente raccontava che la mattina del 2 aprile 1944 si era recata al convento di S.Ambrogio per ritirare della sua roba ivi depositata alcuni indumenti personali, che il padre priore gli aveva detto di andarsene subito perché il convento era invaso dai fascisti, che essa, verso le ore 16 dello stessi [stesso] giorno, era andata a gironzolare intorno al convento nei pressi di questo aveva veduto i fratelli B. Leonello [Lionello] e Vittorio, il B. Mario, un fratello di costui a nome Augusto e certi F. padre e due figli, che successivamente essa era entrata nella propria abitazione e si era affacciata ad una finestra prospiciente un cortile in cui si trovano uno degli ingressi del convento e un altro ingresso che conduce nell’abitazione del B. Vittorio e della moglie di costui B. Anita che, stando affacciata alla finestra aveva sentito uno dei F. dire al B. Lionello: “fra qualche giorno venderemo quella roba che sta depositata in casa di tuo fratello vittorio”, e che il B aveva risposto al F di parlar piano per non farsi sentire dai compagni che stavano fuori. Nel medesimo esposto la Sonnino aggiungeva poi che, incontrava qualche giorno dopo certa Fusaroli Anna e Di Segni Celeste, costoro le dissero: “se avessimo saputo che tu tenevi la tua roba nel convento di S. Ambrogio, ti avremmo detto di portarla via, perché sapevamo che la B. Anita e sua suocera T. Amalia in B. avevano detto che i fascisti dopo aver saccheggiato il negozio di certo Mosè Astrologo, dovevamo andare dai padri di S. Ambrogio. Come già detto, fu dunque sugli elementi resultanti dai due esposti della nominata Sonnino che fu elevato l’addebito di ricettazione a carico dei quattro imputati la cui posizione si sta ora esaminando, e quegli elementi sono precisamente i seguenti: la circostanza che il B. Leonello [Lionello] (il quale è uno dei depredatori del convento di S. Ambrogio) fu visto, qualche giorno dopo l’avvenuto saccheggio, uscire dalla casa del fratello Vittorio, posta nelle immediate vicinanze del convento, portando poi caricando su una vettura delle balle o fagotti che la Sonnino diceva d’aver riconosciuto per quelle da lei stessa depositate nel convento; l’altra circostanza, precedente un ordine di tempo, che lo stesso B. Lionello era stato veduto (non però dalla Sonnino) portare a casa del fratello Vittorio alcuni degli oggetti asportati dal convento; la circostanza delle parole che la Sonnino Laura aveva sentito scambiare fra il B. Leonello [Lionello] e uno dei F. sulla prossima vendita delle robe che avevano in casa del B. Vittorio, la circostanza che il B. Mario, cognato del B. Vittorio, aveva pure lui, poco tempo dopo il saccheggio del convento, portato via della roba dalla casa del cognato, e infine la circostanza che la B. Anita, moglie del B. Vittorio, e la madre di questo T. Amalia, sarebbero state informate del progettato saccheggio del convento di S. Ambrogio. Tutto ciò posto e premesso che i quattro imputati di cui ora il Collegio si occupa si sono sempre protestati innocenti del reato loro ascritto, si osserva che, di tutte le diverse circostanze sovra elencate l’unica che avrebbe potuto essere veramente decisiva ai fini dell’accusa è la prima; quella cioè per la quale la Sonnino Laura aveva affermato che le balle o fagotti che essa aveva veduto portar fuori della casa del B. Vittorio dal fratello di costui Leonello [Lionello], erano state da lei riconosciute proprio per quelle che lei stessa aveva depositato nel convento di S. Ambrogio. Ma quando la Sonnino fu interrogata in sede di dibattimento, molto onestamente dichiarò che, pur non smentendo affatto la sua impressione che i fagotti o balle da lei viste trasportare dal B. Lionello fossero quelle sue, non poteva però giurare che questa sua impressione corrispondesse alla realtà obbiettiva. Il che è del tutto logico, considerando che la Sonnino aveva riconosciuto le balle o fagotti essenzialmente pei loro involucri di stoffa, e allora è ovvio il riflettere che stoffa identica pel colore, per la consistenza e per altre simili qualità poteva essere stata adoperata anche da altre persone per comporre dei fagotti o delle balle simili per forma e per dimensioni a quelle che erano state messe insieme dalla Sonnino. Dal che sorge il legittimo dubbio che la roba che il Leonello [Lionello] B. aveva portato fuori della casa del fratello poteva essere o quella della nominata Sonnino, o altra pur facente parte del deposito esistente nel convento di S. Ambrogio, ma appartenente ad altri depositanti, oppure roba che non aveva niente a che fare col deposito in questione, ma di diversa provenienza, rispetto alla quale non vi sono elementi per dire che fosse lecita o illecita. Quanto poi all’altra circostanza delle parole scambiate fra uno dei tre F. e il B. Lionello a proposito della vendita degli oggetti esistenti nell’abitazione del B. Vittorio, anch’essa dà luogo a un legittimo dubbio, non avendosi elementi per decidere se quegli oggetti provenissero dal saccheggio del deposito del convento di S. Ambrogio oppure avessero origine diversa, che non può in via assoluta escludersi essere stata legittima. Vi è inoltre la circostanza per la quale il Lionello B. avrebbe portato in casa del fratello Vittorio una parte degli oggetti sottratti dal convento di S. Ambrogio, ma non è stato possibile appurare da chi e quando e come la Sonnino l’abbia appresa, onde anche su questo punto non è stato possibile raggiungere una tranquillante certezza. E quanto infine agli altri elementi che dagli esposti della Sonnino risultano nei riguardi del B. Mario, B. Anita in B. e T. Amalia in B., è evidente il trattarsi di indizi che possono dar luogo a dei sospetti plausibili sì, ma non tali da poter venire fondata sovra di essi una ragionevole convinzione di colpevolezza? Eppertanto avvisa il Collegio di dovere mandare assolti il B. Vittorio, il B. Mario, la B. Anita e la T. Amalia, della comune imputazione loro ascritta per insufficienza di prove. Dopo di che resta alla corte da esaminare le risultanze processuali per stabilire se e quali responsabilità spettino agli imputati F. Alfredo, F. Rodolfo, F. Romeo, B. Lionello, P. Umberto, e T. Felice, che sono quelli fra i rinviati a giudizio su cui pesano le più numerose e gravi accuse. A tutti i predetti individui sono stati contestati i delitti di collaborazionismo col nemico tedesco, per averne favorito i disegni politici dando indicazioni per la cattura e partecipando materialmente all’arresto di israeliti, di sequestro continuato di persona a danno degli israeliti da loro catturati e consegnati direttamente o indirettamente ai tedeschi, e di saccheggio continuato, per avere depredato dei loro beni e di effetti mobili altri ebrei, spogliandone le abitazioni e in caso asportando dal convento di S. Ambrogio, tutte le robe ivi state depositate da ebrei. Al F. Alfredo inoltre fu pure contestato il delitto di cui all’art. 640 prima parte C.P. ordinario per essersi fatto consegnare dall’ebreo Pavoncello Anselmo da lui stesso arrestato, un orologio da polso di oro con la falsa promessa di adoperarsi per farlo liberare. Gli israeliti al cui arresto concorsero secondo la accusa i tre imputati F., furono Spizzichino Graziano, Terracina Vittorio Emanuele, Pavoncello Anselmo, Di Nepi Laudadio, Di Porto Gabriele, Spizzichino Umberto, inoltre al F. Alfredo venne imputata la cattura degli altri ebrei Fornari Raffaele, Limentani Settimio e Limentani Anselmo. Al B. Lionello fu imputato il concorso nella cattura degli ebrei Sed Giuseppe, Sed Lello, Efrasi Alberto, Spizzichino Umberto, Fornari Raffaele, Astrologo Emanuele, Limentani Settimio, Limentani Anselmo e Pavoncello Anselmo nonché il tentativo di catturare l’altro ebreo Terracina Alberto. Al P. venne fatto carico della cattura degli ebrei Sed Giuseppe, Sed Lello, Spizzichino Umberto, Pandolfi Mario, Limentani Settimio, Limentani Anselmo, nonché della tentata cattura del già nominato Terracina Alberto. Per quanto riguarda gli atti del saccheggio, i tre F. padre e figli vennero accusati delle depredazioni commesse nel convento di S. Anselmo [S. Ambrogio?] e nelle abitazioni degli ebrei Mieli Alberto, Rabello Ida, e Piazza Amedeo, del saccheggio prima tentato e poi consumato dell’abitazione dell’ebreo Dell’Ariccia Saul e dei tentativi di saccheggio del negozio di Piergentili Alessandra e della casa di Caviglia Adolfo. Il B. Lionello fu accusato di concorso nei saccheggi compiuti a danno di Dell’Ariccia Saul, Mieli Alberto, Rabello Ida, Piazza Amedeo, Pace Rachele, nella depredazione del deposito del convento di S. Ambrogio, e del tentativo di saccheggio della casa di Caviglia Adolfo. Al P. venne addebitato il concorso nel saccheggio compiuto nell’abitazione del già nominato Dell’Ariccia Saul. Al T. infine venne fatto carico di aver partecipato alle spogliazioni, compiute nelle case degli ebrei Piazza Amedeo, Mieli Alberto e Rabello Ida, nonché al saccheggio tentato nell’abitazione di Caviglia Adolfo.

Premesso tutto quanto sopra, e altresì aggiunto che gli imputati F. Romeo e T. Felice non furono mai potuti interrogare perché datisi alla latitanza, si osserva che degli altri quattro prevenuti, il F. Alfredo, il F. Rodolfo e il B. Lionello, che durante l’istruttoria si erano sempre protestati innocenti, respingendo recisamente tutte le accuse loro mosse, al dibattimento sono ritornati sulle loro precedenti dichiarazioni, ed hanno confessato di aver commesso alcuni dei fatti loro attribuiti.

Cominciò il F. Alfredo dicendo di avere appartenuto alla polizia repubblicana che era composta di elementi provenienti dalla milizia volontaria, e di avere fatto parte di una squadra che operava in borghese agli ordini di certo tenente Liverotti.

Aggiunge poi l’imputato che per la sua attività di poliziotto repubblicano percepiva uno stipendio di £ 5000 mensili, che però doveva servire a compensare, oltre che quelle sue anche le prestazioni dei suoi figli Rodolfo e Romeo, i quali prestavano servizio insieme con lui nella medesima squadra. Terminò poi l’imputato con l’ammettere di avere partecipato a diverse operazioni di cattura di israeliti e di asportazione di robe appartenenti a ebrei, che erano trasportate in un locale del vicolo Scavolino dove era il deposito della delegazione del partito. Fra le operazioni del secondo genere indicò quella eseguita nel convento S. Ambrogio, disse di aver sempre agito in seguito a ordini ricevuti, e negò di aver mai percepito alcun premio per la cattura degli ebrei. Il F. Rodolfo confermò le dichiarazioni rese dal padre, e aggiunse che essendo minorenne, e gli era principalmente adibito al trasporto delle robe che venivano prelevate agli ebrei. Il B. Lionello confessò di essersi arruolato nella polizia repubblicana, dove percepiva 5000 lire di stipendio mensile, e si giustificò di averlo fatto per poter vivere e per sfuggire al reclutamento imposto dai tedeschi. Precisò poi di avere partecipato agli arresti degli ebrei Sed Giuseppe, Sed Lello, Limentani Settimio e Limentani Anselmo, aggiungendo che a tali arresti concorsero pure il P. e il F. Alfredo, e che gli stessi furono compiuti a seguito di ordini dati dal P. e da un ufficiale di cui non ricordava il nome.

Disse anche che gli ebrei catturati venivano condotti alla sede della P.A.I. o nei diversi commissariati. Ammise inoltre di avere partecipato ai sequestri di robe appartenenti agli ebrei Dell’Ariccia Saul, Mieli Alberto, Rabello Ida e Piazza Amedeo, che erano stati ordinati dal già nominato tenente Liverotti. Nei riguardi dell’altro imputato P. si osserva che costui, a differenza degli altri tre prima nominati, cominciò a fare delle ammissioni in ordine alle accuse mossegli già in sede istruttoria. In un primo interrogatorio infatti il P., dopo aver detto di essersi inscritto al partito fascista repubblicano nel marzo 1944, di avere appartenuto all’ufficio politico della delegazione del partito, e di aver lavorato vicino al federale e delegato del partito Pizzirani, aggiunse di avere arrestato, insieme con tale B., un ebreo di cognome Funaro, che poi egli, impietositosi lasciò andare libero. Così pure, e sempre a suo dire, il P. narrò di avere lasciato liberi due altri ebrei, da lui arrestati insieme con lo stesso B. a Monteverde Nuovo, nonchè un tale Bracci quest’ultimo però perché dopo l’arresto gli aveva dimostrato di non essere israelita. In un secondo interrogatorio il P. fece un passo avanti, ammettendo che, pur non facendo parte dell’ufficio razziale del partito, aveva però qualche volta per mancanza di altri uomini, partecipato ad operazioni contro persone di razza ebraica, e lasciò intendere chiaramente che le operazioni di cui stava parlando erano diverse da quelle accennate nel suo precedente interrogatorio e così felicemente conclusesi. In un terzo interrogatorio infine il P. confessò di aver proceduto al fermo degli ebrei Limentani Settimio e Limentani Anselmo, e spiegò che anche questa volta lo aveva coadiuvato il nominato B. (che è poi il coimputato B. Lionello); al quale, nel momento di separarsene dopo eseguita la cattura, diè in carico di lasciar liberi i due ebrei. In sede di dibattimento poi il P. confermò gli interrogatori resi durante l’istruttoria, ma riconobbe di essere stato mendace quando aveva dichiarato di avere incaricato il B. di lasciar liberi i due ebrei Limentani, e confessò invece di averli lui stesso accompagnati al comando della P.A.I. In ordine ai fatti di saccheggio attribuitigli, il P. fu invece sempre e del tutto negativo, sia in istruttoria che al dibattimento, ammettendo però di esserne stato informato e di avere saputo che ad alcune di esse avevano preso parte i tre F. e il B. Lionello.

Ora, stando le cose nel modo fin qui riferito, avvisa il collegio che anche se non di[vi] fossero avute in processo le dichiarazioni rese dalle persone offese e dai testimoni che vennero escussi sia durante l’istruttoria che in sede di dibattimento, le ammissioni fatte dagli imputati sarebbero, come in effetto sono, di per sole più che bastevoli per far sostenere pienamente dimostrata la colpevolezza dei tre F., del B. Leonello [Lionello] e del P. in ordine ai reati di collaborazionismo politico col nemico tedesco e di sequestro continuato di persona, nonché dei tre F. e del B. in ordine all’altro delitto di saccheggio loro congiuntamente attribuito. Le dichiarazioni delle parti offese e le deposizioni dei testimoni escussi (che qui sarebbe troppo lungo e d’altronde superfluo enumerare e riassumere, anche perché non sono state impugnate nè in alcun modo contrastate), servono soltanto a persuadere il Collegio che gli atti di collaborazionismo, sequestro di persona e saccheggio commessi dagli imputati sovra nominati che furono in realtà molti di più di quelli che costoro hanno confessato, e ciò riceve poi conferma dagli stessi prevenuti, i quali non hanno mai protestato o comunque reagito al sentire nel corso del dibattimento la triste e lunga enumerazione delle loro malefatte enumerazione che andava ben oltre e al di là delle loro ammissioni. Riguardo al P. invece, e per quanto attratto alla imputazione di saccheggio pure a lui ascritta, lo esame delle altre risultanze processuali è reso necessario dal fatto che, come s’è già detto, egli è stato sempre ed è rimasto anche in udienza risolutamente negativo di fronte alla anzidetta imputazione, affermando di non avere mai partecipato ad alcuna operazione di requisizione in abitazioni di ebrei. Ora, già in sede istruttoria l’unico fatto del genere in cui risultasse implicato il P., era quello del saccheggio operato nell’appartamento dell’ebreo Dell’Ariccia Saul, abitante in Via Galvani n.31 e di cui il P. dichiarò di essere stato informato a cose fatte nonché di aver saputo che vi avevano preso parte i tre F. e il Lionello B.

Di tale episodio trovasi cenno nel rapporto datato 4 luglio 1944 e redatto dal commissario di P.S. dottor Carmine Bottino, nel quale rapporto si riferiva che alla requisizione eseguita nella casa del Dell’Ariccia aveva partecipato anche il P. Il predetto funzionario, citato e interrogato in sede di dibattimento, confermò il contenuto del summentovato rapporto, e a specifica domanda aggiunse che il nome del P., quale partecipe dell’operazione gli era stato fatto dallo stesso danneggiato. Avvista pertanto la Corte che sia sufficiente a persuaderla della responsabilità, dell’imputato un ordine della depredazione della casa del Dell’Ariccia. Ma all’infuori dell’episodio di cui si è testè discorso, null’altro è risultato in processo a carico del giudicabile relativamente all’addebito di saccheggio, e da ciò segue che, per le medesime ragioni già addotte e spiegate quando s’è esaminata la posizione dell’altro imputato P., il P. deve essere ritenuto colpevole soltanto di rapina aggravata e non già del contestatogli saccheggio. Passando quindi all’esame delle emergenze di causa nei confronti dell’imputato latitante T. Felice, si osserva che la responsabilità di costui in ordine all’addebito di saccheggio è rimasta sicuramente provata attraverso le indagini e gli accertamenti compiuti dall’Autorità di P.S., dai quali è risultato che il T., pure appartenente alla polizia repubblicana e facente parte della medesima squadra dei tre F. e del B. aveva attivamente concorso alle spogliazioni compiute nel convento di S. Ambrogio e nelle abitazioni di Mieli Alberto, Rabello Ida e Piazza Amedeo nonché concorso al tentativo di saccheggio operato in casa di Caviglia Adolfo. Quanto sopra risulta dal già estinto rapporto 4 luglio 1944 del commissario Bottino, nel quale trovasi pure riferito che il F. Alfredo e i suoi due figli avevano concordemente indicato il T. come loro abituale compagno nelle requisizioni che essi andavano facendo nelle case degli ebrei. E relativamente poi al saccheggio avvenuto al convento di S. Ambrogio, la Sonnino Laura ha precisamente dichiarato di aver veduto il Tartarelli, da lei ben conosciuto insieme con gli altri individui che erano entrati nel convento per asportare le robe degli ebrei ivi custodite. Viceversa non può dirsi che il T. sia stato raggiunto da prove sufficienti di reità in ordine all’altro ascrittogli reato di collaborazione col nemico tedesco, dato che questa ulteriore accusa era ed è unicamente fondata sulla circostanza che egli apparteneva alla stessa squadra di polizia repubblicana, di cui facevano parte i tre F. e il Lionello B. e abitualmente partecipava alle operazioni che i suddetti andavano compiendo. Ma tale circostanza, se può dar vita a un ragionevole sospetto, non basta però evidentemente per procurare una fondata certezza, onde mentre il T. va dichiarato colpevole per le ragioni già spiegate, del delitto di saccheggio, dev’ essere per contro assolto per insufficienza di prove dall’altra imputazione mossagli. Tanto ritenuto in linea di fatto, il Collegio deve ora fermarsi sulle questioni di diritto sollevate dai difensori degli imputati F. Alfredo, F. Rodolfo, F. Romeo, B. Lionello, P. Umberto e T Felice. Sono già state spiegate le ragioni per le quali devesi ritenere che nella specie concorrono tutti gli estremi necessari a integrare i delitti di collaborazionismo politico col nemico tedesco e si [di] sequestro di persona, infatti quanto si è già osservato a proposito della cattura dei prigionieri inglesi evasi vale esattamente ed anzi a più forte ragione anche per la cattura degli israeliti e per le depredazioni commesse a danno di costoro, onde su questi punti non è più necessario di insistere. Occorre invece esaminare se nella specie concorrono pure tutti gli estremi del contestato reato di saccheggio; e la Corte non esita ad affermare che tale esame non può a meno di condurre a un esito positivo. La dottrina infatti ed anche la giurisprudenza concordemente definiscono il reato di saccheggio con un complesso di fatti di depredazione, [ill.] commessi da più individui con o senza violenze contro le persone, a scopo o di lucro personale, o di approvvigionamento o rifornimento, o di finanziariamento di una impresa o associazione? E aggiungono altresì e tale reato si concreta in una pluralità di fatti di furto o di rapina, i quali allarmano e intimidiscono la popolazione o una parte di questa, menomando la sicurezza generale dell’istituti della proprietà, intesa in senso pubblicistico quale istituzione dello Stato. E infine insegnano, quanto all’elemento psichico del reato, che non occorre dolo specifico, ma è sufficiente quello generico, che si identifica volta in volta con quello dei delitti costituiti da singoli fatti di depredazione e spogliazione. Ora non fa certo bisogno di spendere parole per dimostrare che tutte le sopra elencate esigenze sono a puntino soddisfatte nella specie nella quale si verificò appunto una pluralità di fatti di rapina e di furti che per la loro ripetizione, modalità di esecuzione e finalità, non potevano a meno di generare un pubblico allarme. Né come ha sostenuto alcuno dei difensori, per la sussistenza del reato di saccheggio è necessario che questo dia [sia] commesso in tempi o momenti di disastri, calamità pubbliche rivoluzioni o disordini sociali e politici.

Ciò non è richiesto per la nozione del reato in esame, ma, ove pur lo fosse, si dovrebbe ammettere che anche [ill.] di ciò basta pensare lo stato di anarchia generale in cui viveva la popolazione italiana nella parte di territorio nazionale sottoposto al governo o meglio sgoverno della Repubblica mussoliniana, anarchia per la quale erano sovvertite e soppresse tutte le condizioni indispensabili per un normale e ordinato vivere sociale. Dal doversi ammettere la sussistenza del reato di saccheggio segue poi l’immediata conseguenza che, quanto al delitto di collaborazione col nemico tedesco, gli imputati F. Alfredo, F. Romeo, F. Rodolfo, B. Lionello e P. Umberto non possono beneficiare dell’ amnistia di cui all’ a. 3 del Decr. Pres. 22 giugno 1946 n 4 – Del qual beneficio d’altro canto essi non potrebbero godere anche pel motivo che essi agivano a fine di lucro, non potendosi negare che essi si indussero a mettersi al servizio della cosidetta repubblica sociale italiana, ed a servirla nei modi risaputi, unicamente perché spinti dal desiderio di guadagnare una mercede molto lauta pei tempi che correvano (le 5000 lire mensili di stipendio), che mai avrebbero potuto sperare di procurarsi in altro modo, ed alla quale si sa si aggiungevano altri proventi ed incerti tutt’altro che disprezzabili, quali quelli per la cattura degli ebrei.

Ad eccezione invece dei due latitanti F. Romeo e T. Felice, gli altri quattro imputati hanno diritto di fruire dell’indulto concesso con l’ art. 9 lettera c) del decr. Pres. 22 giugno 1946 n 4 – E per l’art. 1 dello stesso decreto presidenziale, va dichiarato amnistiato il delitto di truffa ascritto al F. Alfredo, a ciò non ostando i precedenti penali de giudicabile.

Quanto al richiesto beneficio delle circostanze attenuanti generiche di cui nell’art. 62 bis C. P. ordinario, il Collegio avvisa di poterlo accordare solo ai F. Romeo e Rodolfo e ciò in considerazione del fatto che sulla determinazione della loro volontà non potè a meno di influire l’esempio e la persuasione del loro padre. Dello stesso beneficio invece non si reputano degni il F. Alfredo, il P., il T., e il B. Lionello, come ne persuade il riflettere ai precedenti politici dei due primi e alla particolare rivoltante faziosità di cui tutti e quattro diedero prova nell’adempimento delle loro miserabili mansioni. Si osserva per ultimo che, quanto al reato di saccheggio deve essere esclusa la contestata continuazione, dato che la pluralità dei fatti è un elemento costitutivo del reato stesso. E venendo allora alla determinazione delle pene da irrogare in concreto agli imputati ritenuti colpevoli, la Corte avuti presenti tutti gli elementi di giudizio e tutti i criteri di valutazione obbiettiva e subiettiva elencati nell’art. 133 C.Pen. ordinario, ritiene giusto e congruo stabilire nelle misure seguenti: P.: pel sequestro di persone, un anno di reclusione = per la rapina, cinque anni di reclusione e seimila lire di multa, aumentate a sette anni e novemila lire per l’aggravante di cui nell’a. 628 ultimo cpv. n 1 C.Pen. ordinario = complessivamente otto anni di reclusione e lire novemila di multa. De Mattia: pel reato di collaborazionismo col nemico tedesco, dodici anni di reclusione, ridotti a otto anni per le attenuanti nell’a. 62 bis C.P. ordinario. P.: pel reato di collaborazionismo col nemico tedesco, venti anni di reclusione = pel reato di sequestro di persona continuato, due anni di reclusione, aumentati a tre per la continuazione e ancora aumentati a quattro per la recidiva contestata all’imputato in sede di dibattimento = per la rapina aggravata, 5 anni di reclusione e lire 6.000 di multa, aumentati a 7 anni e lire 9000 di multa per l’aggravante di cui all’art. 628 ultimo capoverso n. 1 C.P. ordinario = in concreto per l’art. 78 prima parte, n 1 C.P. ordinario 30 anni di reclusione e lire 9000 di multa. F. Alfredo: pel collaborazionismo col nemico tedesco, 20 anni di reclusione = pel sequestro di persona continuato, 3 anni di reclusione aumentati a 4 anni di reclusione per la continuazione = pei delitti di saccheggio, 12 anni di reclusione = in concreto per l’art. 78 prima parte n 1 C.Pen. ordinario, 30 anni di reclusione. T.: pel delitto di saccheggio, dodici anni di reclusione. B. Lionello: pel reato di collaborazionismo, 20 anni di reclusione = pel sequestro di persona continuato 3 anni di reclusione, aumentati a 4 per la continuazione = pel reato di saccheggio, 12 anni di reclusione residuano, per l’art. 78 prima parte n 1 C.P. ordinario 30 anni di reclusione. F. Romeo: pel reato di collaborazionismo, 12 anni di reclusione = pel sequestro di persona continuato 1 anno e 6 mesi di reclusione aumentati a 2 anni per la continuazione = pel reato di saccheggio, 10 anni di reclusione = risultano in tutto 24 anni di reclusione ridotti a 16 anni per le attenuanti generiche. F. Rodolfo, di età maggiore dei quattordici e minore dei diciotto anni: pel reato di collaborazionismo, 12 anni di reclusione, ridotti a 8 anni per le attenuanti generiche, e ridotti ancora a 6 anni per l’età minore = pel sequestro di persona continuato 1 anno e 6 mesi di reclusione, aumentati a 2 anni per la continuazione, ridotti a 1 anno e 4 mesi per le attenuanti generiche, e ridotti ancora a 11 mesi di reclusione per [ill.] reclusione, ridotti per le attenuanti generiche a 6 anni e 8 mesi e ridotti ancora per l’età minore a 4 anni e sei mesi = risultano complessivi 11 anni e 5 mesi di reclusione. Tutti gli otto predetti imputati vanno poi condannati all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e alla interdizione legale durante l’espiazione della pena, nonché in solido fra loro nelle spese processuali. Inoltre il P., i tre F., il B., il T. vanno condannati ai danni verso la parte civile Sonnino Laura, i tre F. ai danni verso la parte civile Terracina Lello, il F. Alfredo ai danni verso le parti civili Zarfati Adriana e Pavoncello Elio, il B. e il F. ai danni verso la parte civile Di Porto Gabriele, il P. e il B. ai danni verso la parte civile Terracina Alberto, danni da liquidarsi per tutti in sede separata. Escluso poi il De Mattia, tutti gli altri imputati vanno condannati in solido nelle spese di parte civile e nei relativi onorari di difensore, che si ravvisa congruo tassare in rispettive lire 690 e 24000. Va per ultimo disposta la scarcerazione dell’imputato Brega se non detenuto per altra causa.

Capo di accusa

Il P. –

  1. a) del delitto di cui agli art. 5D/L.L. 07.1944 n.159 in relazione agli art. 51 e 58 CPMG, per avere in Roma, posteriormente all’8 settembre 1943, in concorso con altri appartenenti alle SS italiane, dando indicazioni e materialmente partecipando alla cattura di due militari inglesi evasi e delle persone che li ospitavano, e dando ordini per il saccheggio di un deposito di roba di ebrei in un convento di Benedettini, collaborato con il tedesco invasore, favorendo le operazioni militari ed i disegni politici.
  2. b) del delitto p e p dagli art. 605; 110 CP, per avere nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, in concorso con altri appartenenti alle SS italiane, privato della libertà personale le predette persone.
  3. c) del delitto p e p degli art. 419, 110 CP, per avere nelle medesime circostanze di t. e l; in concorso con altri appartenenti alle SS italiane, dando ordini e disposizioni, partecipando ad un saccheggio di un deposito di roba di ebrei in un convento di Benedettini.
Il De Mattia –
  1. Del delitto p e p degli art. 5D.L.L. 27.07.1944 n.159 in relazione agli art. 51 e 58 CPMG 110 CP, per avere in Roma posteriormente all’8 settembre 1943, in concorso con altri appartenenti alle SS italiane, fornendo indicazioni circa il luogo dove erano rifugiati due militari inglesi evasi, e provocando così l’arresto di essi e delle persone che li ospitavano, collaborato con il tedesco invasore favorendone le operazioni militari ed i disegni politici.
 
  1. Del delitto p e p degli art.605; 110 CP, per avere nelle medesime circostanze di t. e L; ed in concorso con altri appartenenti delle SS italiane, fornendo le predette indicazioni, concorso a privare le predette persone della libertà personale.
 

Il Faiola Alfredo, Il Faiola Rodolfo, Il Faiola Romeo ­–

  1. Del delitto p e p degli art. 5 D.L.L. 27/07/1944 n.159 in relazione all’art. 58 CPMG 110 CP, per avere in Roma dopo l’8 settembre 1943 in concorso fra loro e con altri appartenenti alle SS italiane fornendo indicazioni e materialmente partecipando all’arresto degli ebrei: Spizzichino Graziano, Terracina Vittorio, Pavoncello Anselmo, Di Nepi Laudadio, Di Porto Gabriele e Spizzichino Umberto ed altri (alcuni dei quali trucidati nelle fosse Ardeatine) ed Il Faiola Alfredo inoltre dell’arresto di Fornari Raffaele, Limentani Settimio e Limentani Anselmo collaborato con il tedesco invasore favorendone i disegni politici.
 
  1. Del delitto p e p degli art. 605, 110 CP; per avere nelle medesime circostanze di t. e L. in concorso fra loro e con altri appartenenti delle SS italiane e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso privato della libertà personale le predette persone.
 
  1. Del delitto p e p degli art. 419, 110 e 81 CP; per avere nelle medesime circostanze di t. e L. in concorso fra loro e con altri appartenenti alle SS italiane; e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso saccheggiato un deposito di roba di ebrei in un convento di Benedettini, nonché le abitazioni degli ebrei: Dell’Ariccia Saul, Mieli Alberto, Rebello Ida, Piazza Amedeo ed il negozio di Piergentini Alessandra e di Dell’Ariccia Saul, e tentato di saccheggiare l’abitazione di Caviglia Adolfo.
 

Il Bartoloni Leonello –

  1. Del delitto p e p degli art. 5D.L.L. 27.07.1944 159 in relazione all’art. 58 CPMG 110 CP, per avere in Roma, dopo l’8 settembre 1943, in concorso con altri appartenenti alle SS italiane, fornendo indicazioni e materialmente partecipando all’arresto degli ebrei: Di Porto Gabriele, Sed Giuseppe e Sed Lello, Efrati Alberto e Spizzichino Umberto, Fornari Raffaele, Astrologo Emanuele, Limentani Settimio, Limentani Anselmo ed altri, nonché tentando di arrestare Terracina Alberto, collaboratore con il tedesco invasore favorendone disegni politici.
 
  1. Del delitto p e p degli art. 605, 110, 81 CP per avere privato le dette persone della libertà personale.
 
  1. Del delitto p e p degli art. 419, 110, 81 CP per avere nelle medesime circostanze di t. e L., in concorso con altri appartenenti alle SS italiane e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso saccheggiato un deposito di roba di ebrei in un convento di Benedettini nonché le abitazioni degli ebrei: Dell’Ariccia Saul, Mieli Alberto, Rebello Ida, Piazza Amedeo, Pace Rachele, e tentato di saccheggiare quella di Caviglia Adolfo.
 

Il Pallotta –

  1. Del delitto p e p degli art. 5D.L.L. 27.07.1944 n.159 in relazione all’art. 58 CPMG 110 CP, per avere in Roma, dopo l’8 settembre 1943 in concorso con altri appartenenti delle SS italiane fornendo indicazioni e materialmente partecipando all’arresto degli ebrei Sed Giuseppe e Sed Lello, Spizzichino Umberto, Pandolfi Mario, Limentani Settimio, Limentani Anselmo ed altri, nonché di arrestare Terracina Alberto, collaborato con il tedesco invasore favorendone i disegni politici.
  2. Del delitto p e p degli art. 605, 110 81 CP, per avere privato le predette persone della libertà personale.
 
  1. Del delitto p e p degli art. 419, 110, 81 CP, per avere nelle medesime circostanze di t. e di l., in concorso con altri appartenenti alle SS italiane, e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, saccheggiato l’abitazione di Dell’Ariccia Saul e di altri ebrei.
 

Il Tartarelli-

  1. Del delitto p e p degli art. 5D.L.L. 27.07.1944, n.159 in relazione agli art. 58 CPMG 110 CP per avere in Roma, dopo l’8 settembre 1943 in concorso con altri appartenenti alle SS italiane, fornendo indicazioni e procedendo alla ricerca e all’arresto di ebrei, collaborato con il tedesco invasore favorendone i disegni politici.
 
  1. Del delitto p e p degli art. 419, 110, 81 CP, per avere nelle medesime circostanze di t. e l. in concorso con altri appartenenti alle SS italiane e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, saccheggiato un deposito di roba di ebrei in un convento di Benedettini nonché le abitazioni degli ebrei: Mieli Alberto, Piazza Amedeo e tentato di saccheggiare quella di Caviglia Adolfo.
 

 

Il Bartoloni Vittorio, La Trancassini Amalia, Il Belardi Mario, La Belardi Anita:

del delitto p e p degli art. 648, 110 CP, per avere in Roma, nell’aprile 1944, a fine di procurarsi in giusto profitto, occultato nelle proprie abitazioni oggetti di provenienza furtiva.

 

Faiola Alfredo di Achille inoltre:

  1. Del delitto p e p degli art. 5D.L.L. del 27.07.1944 n.159 in relazione all’art.58 CPMG, per avere in Roma, dopo l’8 settembre 1943 collaborato con il tedesco invasore favorendone i disegni politici, procedendo all’arresto dell’ebreo Pavoncello Anselmo, a scopo di lucro.
 
  1. Del delitto di a cui all’art.640 CP; perché nelle medesime condizioni di t. e l. si faceva consegnare dall’arrestato un orologio di oro con la mendace promessa di liberarlo.
 

Brega Nereo di Giuseppe:

  1. Del reato di cui all’art. 341 p.p e ult. cpv CP, per avere offeso l’onore e il prestigio del sottotenente della disciolta P.A.I Cani Tullio, percuotendolo cagionandoli lesioni guarite in giorni 10, ed insultandolo con le parole: “non sei un ufficiale, sei una merda, e merda è tutta la P.A.I.” in Roma il 03.04.1944.
 
  1. Del reato di cui all’art. 605 p.p CP, per avere, nelle circostanze di cui al capo precedente, privato della libertà personale, il S. Ten., ed il Vic. Brig della P.A.I Vetri Enrico, che, dopo aver condotto nella sede della Federazione Repubblicana fascista di Piazza Colonna abusivamente faceva richiudere in una camera in stato di fermo.
 
  1. Del reato di cui all’art. 5 del D.L.L il 27.07.1944 n.159 in relazione all’art.58 CPMG per avere, dopo l’8 settembre 1943, prestando servizio in Roma presso la Federazione Repubblicana alla dipendenza del Federale Pizzirani, favorito i disegni politici del tedesco invasore.
 
  1. Del reato di cui agli art. 110, 628 CP per essersi in Roma nell’aprile 1944, in concorso con certo P. ed altri, impossessato al fine di trarne profitto di cappe e valigie contenenti indumenti e merce varia, di proprietà degli ebrei Sonnino, Toglia ed altri, depositate presso il convento dei Benedettini Sant’Ambrogio usando violenza e minacce contro i religiosi che le detenevano.

P.Q.M

La Corte:

Visti gli aa. 605, 628 prima parte e ultimo capv. n 1 419, 110, 99 n 2; 98, 62 bis, 78 prima parte n 1, 29; 32, 230, 174, 133 C.Pen. 5 D.L.L. 27 luglio 1944 n 159, 1, 3, 9, e 10 Decr. Pres. 22 giugno 1946 n 4, n 488 e 489 C.Proc.Pen.

Dichiara colpevoli:

P. Gaetano di sequestro di persona e di rapina aggravata = De Mattia Giuseppe di aiuto al nemico nei suoi disegni politici, con le circostanze attenuanti generiche = Faiola Alfredo, Faiola Rodolfo, Faiola Romeo e Bartoloni  Leonello [Lionello] di aiuto al nemico nei suoi disegni politici, di sequestro di persona continuato e di saccheggio, esclusa per quest’ultimo reato la continuazione, con le circostanze attenuanti generiche per il Faiola Rodolfo e Romeo, e con la diminuente dell’età minore pel Faiola Rodolfo = Pallotta Umberto di aiuto al nemico nei suoi disegni politici, di sequestro di persona continuato, con l’aggravante della recidiva specifica e di rapina aggravata = e Tartarelli Felice di saccheggio esclusa la continuazione.

E condanna:

Il P. alla pena complessiva di anni otto di reclusione e lire 9000 di multa = il De Mattia a otto anni di reclusione = Faiola Alfredo e Bartoloni  Leonello [Lionello] ciascuno alla pena complessiva della reclusione per anni 30 = Il Pallotta alla pena complessiva della reclusione per anni 30 e alla multa di lire 9000 = Faiola Rodolfo alla pena complessiva della reclusione per anni undici e mesi cinque = Faiola Romeo alla pena complessiva della reclusione per anni sedici = Il Tartarelli a dodici anni di reclusione = il Faiola Alfredo, Rodolfo e Romeo, Bartoloni  Leonello [Lionello] e il Pallotta Tortarelli [Tartarelli] alla libertà vigilata per non meno di tre anni = tutti gli otto imputati predetti all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione legale durante la pena, nonché in solido alle spese del procedimento = il P., Faiola Alfredo, Rodolfo e Romeo, Bartoloni  Leonello [Lionello] e il Tartarelli ai danni verso la parte civile Sonnino Laura, i tre Faiola suindicati ai danni verso la parte civile Terracina Lello, Faiola Alfredo anche ai danni verso le parti civili Zarfati Adriana e Pavoncello Elio; Bartoloni  Leonello [Lionello] e i tre Faola [Faiola] ai danni verso la parte civile Di Porto Gabriele; il Pallotta e il Bartoloni  Leonello [Lionello] ai danni verso la parte civile Terracina Alberto; danni tutti da liquidarsi in separata sede, e i detti P., Faiola Alfredo, Faiola Romeo, Pallotta, Bartoloni  Leonello [Lionello] e Tartarelli in solido alle spese di parte civile che si liquidano in lire 690 e all’onorario al difensore delle parti civili che si liquida in £ 24000 = Dichiara condonati per il Pavone e il Faiola Rodolfo cinque anni di reclusione e l’intera multa, per Faiola Alfredo e Bartoloni  Leonello [Lionello] dieci anni di reclusione, e per il Pallotta dieci anni di reclusione e l’intera multa =

Visti poi gli aa. 151 C.Pen. 1 e 3 Decr. Pres. 22 giugno 1946 n 4 e 479 C.P.Pen.

Dichiara non doversi procedere contro P. Gaetano in ordine all’imputazione di collaborazione col tedesco invasore, contro Faiola Alfredo in ordine all’imputazione di truffa, e contro Brega Nereo in ordine alla imputazione di oltraggio a pubblico ufficiale, per estinzione di tali reati in seguito ad amnistia. Visto infine l’a. 479 C.P.Pen. Assolve De Mattia Giuseppe dall’imputazione di sequestro di persona, e Brega Nereo dalle imputazioni di aiuto al nemico nei suoi disegni politici e di rapina per non aver commesso il fatto, e assolve Tartarelli Felice dall’imputazione di aiuto al nemico nei suoi disegni politici; Bartoloni  Vittorio, Trancassini Amalia, Belardi Mario e Belardi Anita dall’imputazione di ricettazione, e Brega Nereo da quella di sequestro di persona per insufficienza di prove. Ordina che il Brega Nereo sia scarcerato se non detenuto per altra causa.

ANNO:

1946

TRIBUNALE:

Corte di Assise di Roma. I Sezione speciale

PRESIDENTE:

Erra Arturo

TIPOLOGIA DI ACCUSA:

Delazione, Estorsione, Saccheggio,

ACCUSATI:

B. Anita
B. Leonello
B. Mario
B. Nereo
B. Vittorio
D. Giuseppe
F. Alfredo
F. Rodolfo
F. Romeo
P. Gaetano
P. Umberto
T. Amalia
T. Felice

VITTIME:

Astrologo Emanuele
Astrologo Mosè
Caviglia Adolfo
Della Riccia Saul
Di Nepi Laudadio
Di Porto Gabriele
Di Veroli Amadio
Efrati Alberto
Fornari Raffaele
Limentani Anselmo
Limentani Settimio
Limentani Settimio
Mieli Alberto
Mieli Umberto
Pace Rachele
Pavoncello Angelo
Pavoncello Anselmo
Piazza Amedeo
Rabello Ida
Sed Giuseppe
Sed Lello
Sonnino Laura
Spizzichino Graziano
Spizzichino Umberto
Tagliacozzo Gino
Terracina Alberto
Terracina Vittorio

COLLOCAZIONE:

Archivio di Stato di Roma, Corte di assise speciale, f. 124

BIBLIOGRAFIA:

Martino Contu, Mariano Cingolani, Cecilia Tasca, I martiri ardeatini. Carte inedite 1944-1945, AM&D Edizioni, Cagliari, 2012. Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia (a cura di), Dopo il 16 ottobre. Gli ebrei a Roma tra occupazione, resistenza, accoglienza e delazioni (1943-1944), Roma, Viella, 2017.