Koch Pietro

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In fatto e in diritto Pietro Koch, figlio di padre tedesco, era sottotenente dei Granatieri, quando l’infausto 8 settembre 1943 segnò il destino del nostro glorioso esercito.

Egli, che poco tempo prima aveva sottratto dalle casse del suo Reggimento delle somme e non sarebbe certamente sfuggito alle gravi conseguenze di un procedimento penale, trovò in quella circostanza un mezzo insperato di salvezza, e, buttando la divisa, volle sciogliersi da ogni vincolo sentimentale e reale col suo passato di militare, dando libero sfogo ai suoi mal dissimulati sentimenti antitaliani.

Egli dice in modo cinico e sprezzante che in quel tempo non vi era una Italia, ma vi erano due Italie, e tra esse deliberatamente scelse quella verso cui il suo sangue tedesco imperiosamente lo spingeva.

Corse a Firenze, dove si iscrisse al partito fascista repubblicano e si mise agli ordini del famigerato centurione della milizia fascista Carità, capo di una banda di predoni e di torturatori di patrioti e di antifascisti, che egli non solo emulò, ma cercò subito di sopraffare, intollerante come era dell’altrui superiorità gerarchica.

Desideroso di un posto di comando e di una maggiore libertà di movimento, che gli avesse consentita un’azione più energica e più efficiente si presentò senza indugio al capo della polizia dello pseudo governo repubblicano fascista, Tullio Tamburini, dal quale ottenne l’autorizzazione a costituire e dirigere un reparto speciale di polizia come quello del Carità, per la repressione dell’antifascismo e antinazismo e la persecuzione degli ebrei e dei patrioti.

Figlio di tedesco, egli apertamente ammette che non si sentiva di combattere i tedeschi, e che consapevolmente spiegò invece intensa attività per combattere l’antinazismo.

La banda da lui organizzata e composta di elementi che egli stesso aveva diligentemente scelti tra i peggiori criminali, prese il suo nome e cominciò ad operare sotto la sua direzione e alla sua esclusiva dipendenza, sovvenzionata largamente con i fondi dello pseudo governo repubblicano.

Sorta in un campo di assoluta ed aperta illegalità, sotto il nome di “reparto speciale di polizia” la banda non fu che lo strumento dei fascisti e dei nazisti per soffocare, attraverso una vasta e complessa attività criminosa, ogni legittimo senso di ribellione e di riscossa, e stroncare ogni contraria organizzazione, non solo di carattere politico, ma anche militare.

Il capo delle S.S. tedesche, generale Wollf [sic], e il capo della polizia repubblicana avevano dato a Koch ampi poteri. Della scelta dei gregari e del loro armamento egli solo fu l’arbitro; l’autorizzazione a portare armi soltanto a lui era stata data, perché si credette di giustificarla con la nomina, prima a commissario, e poi a questore, che gli fu conferita per la grande fiducia che, a suo dire, aveva saputo ispirare.

Numerosi patrioti, antifascisti ed ebrei vennero depredati, arrestati e poi torturati nei locali della pensione “oltre Mare” in Via Principe Amedeo e della pensione “Iaccarino” in Via Romagna, che furono le sedi della banda; e l’atrocità di tali torture (privazione di aria e di cibo, percosse a sangue, fratture di costole, strappi di unghie e di capelli, punture di spilli e applicazioni di punteruoli nelle parti più sensibili del corpo ecc.) superò quella che gli stessi poliziotti tedeschi avevano commesso nelle insanguinate prigioni di Via Tasso.

Il Koch ammette le perquisizioni, gli arresti e i rastrellamenti; non confessa le torture, per quanto nel suo largo accenno a “metodi polizieschi” e a “maltrattamenti limitati”, la confessione possa anche su questo punto ritenersi implicita, e non meno piena.

Dopo di aver puntualmente e fedelmente eseguito l’ordine del generale della milizia fascista Luna di procedere all’arresto del generale d’armata Mario Caracciolo, quegli che aveva opposto maggiore resistenza ai tedeschi, partecipò attivamente, con l’intervento di un ufficiale tedesco, alla elaborazione di un largo piano di perquisizioni e di arresti nei locali dell’istituto pontificio lombardo Russicum e dell’istituto Orientale, dove si sperava di sorprendere e catturare un generale d’armata col suo Stato Maggiore.

Le perquisizioni ebbero luogo nella notte del 29 dicembre e le operazioni, che durarono fino alle sette del mattino, furono personalmente diretto dal Koch con  l’intervento di soldati tedeschi guidati da un ufficiale, e si conclusero con l’arresto di numerose persone, tra cui il noto antifascista Giovanni Roveda.

Successivamente, alla testa di circa cento agenti, violando la extraterritorialità della Basilica di San Paolo, dopo di aver organizzata l’operazione in concorso col famigerato Caruso, penetrava nei locali dell’Abazia, ed occupato il corpo di guardia, e disarmata la Guardia svizzera -forte di venti uomini- arrestava molti patrioti che vi si erano rifugiati, tra cui il generale dell’Aeronautica Monti, che fu trovato in ambito talare e fu fatto segno al più volgare dileggio.

Notevole attività svolse poi nell’annientamento  dei gruppi di azione patriottica e studentesca, e procedette all’arresto degli elementi dirigenti più in vista, tra cui il prof. Pilo Albertelli e l’avv. Ugo Baglivo, nonché di numerosi patrioti, prigionieri di guerra e giovani renitenti alla leva repubblicana, che furono tradotti in primo tempo nella sede della banda, dove vennero interrogati e seviziati e poi a Regina Coeli, da dove alcuni- tra cui il Baglivo e l’Albertelli- vennero successivamente rilevati e tratti al sacrifizio delle Fosse Ardeatine, ed altri deportati. Il verbale di denunzia dell’ufficio di polizia giudiziaria presso l’Alto Commissariato dà atto di una serie di testimonianze in ordine alle gravi sevizie inflitte agli arrestati.

Interessante è il racconto del sottotenente Sergio Ruffolo, che fu lungamente prigioniero della banda e, degne di rilievo le denunzie degli agenti P.S. Rinaldi Aldo, Bucchi Alberto e Preziosi Giovanni, di certi Cupo Pagano Vittorio e Mazzocchi Giulio, anch’essi brutalmente e gravemente percossi ad opera del Koch, durante la loro non breve prigionia, nonché quella di Francesco Rossi, che riferisce il racconto del fratello Umberto morente a Regina Coeli dopo le micidiali percosse subite e a quella, infine, relativa agli atti di violenza commessi nello stabilimento S.R.C. Meccaniche, dove la banda armata di fucili mitragliatori capitanata dal Koch, irruppe e sopraffece il personale, prelevandole i maggiori esponenti, che arrestò e sottopose a dure sevizie, in seguito alle quali certo Pinto Giuseppe perdette un occhio, Flora Aquilino e Diotallevi Livio ebbero delle costole fratturate e Fogliani Ezio fratturata una spalla. Degno di particolare rilievo è il martirio del Prof. Albertelli, nel racconto di un compagno di prigionia.

Calci, pugni gli erano stati inferti con estrema violenza durante interminabili interrogatori. Fasciate le braccia, immobilizzato il corpo dolorante, era stato più volte sollevato di peso, scagliato in aria e fatto piombare sul pavimento dagli sgherri spietati, che si erano avvicendati tutti in quell’azione selvaggia. Più volte aveva perduto la conoscenza e più volte era rinvenuto sotto l’impressione dell’acqua gelata che a secchie gli veniva buttata addosso. Aveva tentato il suicidio, ma non vi era riuscito. Infossate le guance e gli occhi lucidi di febbre, le forze lo avevano completamente abbandonato, sì da non potersi muovere e nemmeno distendersi senza essere aiutato; le costole spezzate gli rendevano difficile e penoso il respiro ed ogni colpo di tosse, che non riusciva a reprimere lo soffocava e gli dava delle trafitture atroci al petto. Quando lo vide la prima volta sul lurido giacilio della piccola cella quel suo compagno di prigionia, lo trovò irriconoscibile e ne rimase angosciato. Eppure, in quelle condizioni strazianti di spirito e di corpo, il Koch, a dire dello stesso Albertelli, ebbe a sferrargli un tremendo calcio alla regione cardiaca, che lo fece sudar freddo e tramortire. Notevole altresì fu l’attività del Koch diretto a scoprire il rifugio di militari alleati evasi dal campo di concentramento, che poi si affrettava a consegnare ai “camerati tedeschi”. Molti furono gli arresti di prigionieri da lui eseguiti ed anche delle persone che li ospitavano, ed al riguardo merita di essere ricordata la violenza che esercitò su certo Pasquale Perfetti, finto sacerdote, che recava soccorso agli evasi. Lo trasse in arresto e per farlo parlare lo sottopose a percosse e sevizie, le quali furono così efficaci che il Perfetti, non solo rinunziò all’opera buona che aveva fino allora praticata, ma divenne la spia e fedele collaboratore del Koch nella persecuzione di quei disgraziati. Lo zelo e la ferma intransigenza di costui nella intrapresa azione persecutrice, giunsero a tal punto da superare la stessa attività delle autorità tedesche, le quali nelle diligenti ricerche di un’organizzazione di recente costituita a favore di quei prigionieri, più che un criterio di rigore, aveva adottato un criterio di moderazione per non turbare ancora maggiormente i loro rapporti, già scossi, con le autorità del Vaticano. Il Koch, infatti in un rapporto diretto al questore di Roma, scriveva che “per vincere soprattutto il parere contrario delle autorità di polizia germaniche stava raccogliendo prove precise contro le due legazioni francese e svizzera e contro i prelati che facevano parte dell’organizzazione”. Per favorire il nemico invasore, verso il quale si sentiva attratto, e di cui seguiva fedelmente gli ordini e le direttive, intensificava sempre di più l’opera sua, al fine di rendere più forte ed efficiente la resistenza di fronte ai crescenti progressi dell’avanzata alleata. Con azione abile e tenace riuscì a scoprire e sorprendere una stazione radio trasmittente in collegamento con V^ Armata Americana e la consegnò ai tedeschi con tutto il materiale sequestrato e con il relativo personale, di cui facevano parte Maurizio Giglio, Mastrogiovanni Luigi e Bonocore Vincenzo, dei quali i primi due furono trucidati alle Fosse Ardeatine. Sventò in tempo un tentativo di sabotaggio tendente a distruggere il Comando germanico di Corso d’Italia e quello di Via Tasso, sequestrando una quantità di esplosivi. Soffocò inoltre un tentativo della cosiddetta organizzazione Badoglio, operando largamente arresti e sequestro di armi. Con una vasta e complessa operazione, abilmente organizzata e diretta, riuscì anche a sventare un tentativo di sabotaggio con lo sciopero di tutte le forze antifasciste clandestine procedendo tempestivamente all’arresto di un numero considerevole di persone, tra cui i dirigenti della società romana di elettricità, i dipendenti dell’ A. T. A. G. e gli elementi comunisti più indiziati. Di questo ebbe a vantarsi con un rapporto in cui, fra l’altro, disse “che se nulla avvenne fu unicamente dovuto allo sforzo, alla prontezza, alla diligenza degli uomini del suo reparto”. Ed infine, in occasione dell’attentato di Via Rasella, spinse rapidamente con vera passione ed indomabile impulso le sue indagini sì da individuare il colpevole, e spiegò una singolare attività, di cui non esitò a farsi egli stesso l’elogio con queste parole consacrate in un altro rapporto: “a titolo di cronaca si aggiunge ancora che questi arresti sono i primissimi frutti, in questo campo, di qualunque reparto di polizia, sia italiana che germanica. Questo comando se ne onora, perciò, con la piena coscienza di avere compiuto, nel nome della polizia repubblicana, una delle più belle e difficili operazioni dalla costituzione del reparto stesso”. Ed oltre ad eseguire quegli arresti, che contribuirono all’opera di rappresaglia, spiegata dai tedeschi per l’attentato di via Rasella, il Koch completò l’opera sua, informata tutta a favore del nemico, compilando, in concorso con il questore Caruso, la lista dei cinquanta ostaggi che dovevano essere, come furono, sacrificati alle Fosse Ardeatine. Con l’arrivo degli alleati, il Koch fuggì da Roma, e dopo di aver peregrinato per varie città dell’Italia Settentrionale, veniva arrestato a Firenze il 16 maggio del 1945. La istruzione del processo, rapida, ma intensa, e il dibattimento, che fu breve, ma celebrato nella più stretta osservanza e con le più ampie garanzie di legge han posti come premesse certe ed ineluttabili di giudizio i fatti sopra rilevati, i quali rendono manifesta la piena consistenza giuridica dell’imputazione fatta al Koch ai sensi dell’Art. 5 del Decreto Luog. 27 luglio 1944 n° 159, che si sostanzia in quella forma di tradimento (aiuto al nemico) prevista e punita dall’Art. 51 c.p.m.g.

Ha contribuito alla brevità del dibattito la confessione dell’imputato, ed anche la rinunzia ai testimoni già indotti a sua difesa, dopo che il tentativo fatto con la escussione di uno solo di essi, il conte Luchino Visconti di Modrone, ebbe a fallire completamente aggravando la sua condizione processuale. Disse infatti il testimone di essere stato arrestato e trattenuto dal Koch il quale aveva ordinato di fucilarlo entro la notte; aggiunse che il suo interrogatorio tardò molto perché egli non era ancora abbastanza debole e la consuetudine era quella di far indebolire gli arrestati con le sevizie ed il digiuno prima di interrogarli e disse, infine, che nella piccolissima cella, cosidetta  “buco”, nella quale aveva lungamente atteso la fucilazione, furono in un certo momento rinchiusi ed appesi, legati strettamente corpo a corpo due altri patrioti, col vivo compiacimento del Koch. Elemento integratore essenziale della suddetta figura criminosa, è, il concorso di una cosciente e effettiva collaborazione, il fine specifico di favorire il nemico, e questo favoreggiamento, voluto e cosciente, lo stesso Koch riconosce quando afferma di essersi reso ben conto della collaborazione prestata a favore di tedeschi e che tutta la sua attività egli spiegava con la piena consapevolezza che potesse giovare ad essi, come difatti giovava. La legge del citato art. 51 parla di favoreggiamento al nemico nelle sue operazioni militari, ma il concetto di operazioni militari va però riportato, non già nel campo ristretto di determinate e ben definite operazioni militari sibbene in un campo più vasto, in relazione cioè, all’andamento generale di tutta l’attività bellica del nemico, nel suo complesso. Non si poteva, infatti, né si è voluto dal legislatore inquadrare quel concetto in una definizione precisa, per lasciarlo invece opportunamente individuare, nei vari casi, attraverso una valutazione realistica in rapporto ad un determinato tipo di guerra e ad un complesso di condizioni e circostanze contingenti. Nella guerra moderna, che è guerra di popoli anziché di soli eserciti, e nella speciale situazione in cui si trovava Roma durante il periodo nazi-fascista, l’arresto e la deportazione di giovani renitenti alla leva fascista e di tutti coloro che vennero poi deportati per il servizio obbligatorio del lavoro, nonché di altri numerosissimi patrioti del fronte della resistenza, il soffocamento di ogni organizzazione e la distruzione e la dispersione delle energie e dei mezzi da essa predisposti ed approntati per la prima lotta contro il nazifascismo ed infine tutte quelle azioni criminose, che il Koch in grande stile commetteva e che si risolvevano in un sistematico sensibile indebolimento del sostrato materiale e morale della nostra compagine nazionale, costituiscono elementi concreti, univoci e rilevanti di un aiuto efficiente, che incide profondamente in tutta quella che era la organizzazione militare del nemico attraverso la lotta alle forze patriottiche di resistenza.

Né si può configurare la ipotesi più lieve dell’Art. 58 c.p.m. di guerra, poiché tutti i fatti commessi dal Koch, tra cui particolarmente quello di aver sottratto uomini alla Patria e di averli consegnati al nemico, o per combattere nelle sue file o per eseguire lavori necessari e indispensabili al suo sforzo bellico, trascendono i limiti di un semplice favoreggiamento a sfondo politico, quale potrebbe essere quello di chi agevola e comunque contribuisce a secondare i disegni del nemico relativamente al consolidamento della sua posizione di governo e di comando sul territorio occupato anche attraverso un’opera di penetrazione morale tra le popolazioni.

Ritenuta, quindi, perfetta la configurazione del reato, la responsabilità del Koch non può essere, né esclusa per l’Art. 51 del c.p., né attenuata per quello che la difesa ha detto circa la supposta fragile giovinezza del soggetto, che sarebbe stata travolta nel vortice di un ambiente tempestoso e avvelenato.

Trattandosi di valutare la responsabilità per un reato di carattere prevalentemente militare, sembra alla Corte che sia da applicare nella specie la legge militare e precisamente l’Art. 40 c.p.m., il quale non discrimina chi ha eseguito un ordine la cui esecuzione costituisce manifestamente reato, come manifestamente delittuosa appariva tutta l’attività del Koch.

Ma, a parte ciò, e prescindendo anche dal fatto che egli non ebbe ordini ed imposizioni specifiche per quello che commise, ed operò sempre di propria iniziativa, osterebbe alla applicazione del citato Art. 51 del c.p.c., oltre la generale che nessuno è obbligato ad eseguire un ordine che importi la consumazione di un delitto, anche il riflesso che non vi era nella specie una pubblica autorità da cui un ordine potesse promanare, non potendosi far rientrare il concetto di pubblica autorità in quella sfera antigiuridica nella quale operò la banda Koch sotto l’egida di una fantastica repubblica sociale, che altro non fu se non una grottesca finzione di governo.

E mancherebbe anche il presupposto essenziale di un vincolo di gerarchia, giuridicamente inteso, tra chi avrebbe dato l’ordine e chi l’avrebbe eseguito. Poiché se l’esercito si era di fatto dissolto, non si era però sciolto il vincolo che il Koch aveva contratto come cittadino italiano e come militare, di fronte alla legge dello Stato; e se egli con la iscrizione al fascio repubblicano volontariamente si pose in una sfera antigiuridica e contrasse, al di fuori ad a spreto della legge stessa rapporti che questa ovviamente non può riconoscere, non gli è lecito oggi, questi fatti rapporti, invocare l’enorme tutelatrici del nostro ordinamento giuridico. Ne il Koch può meritare attenuanti che repugnerebbero con la molteplicità ed atrocità dei fatti delittuosi consumati. Il Koch si è sempre sentito tedesco e la divisa di ufficiale italiano non ebbe a alterare i suoi sentimenti di tedesco: nel giorno steso, in cui fu proclamato l’armistizio, egli infatti fuggì con l’animo di darsi, come si dette, ai tedeschi, senza alcuna repugnanza e ribrezzo. Deve sì quindi ai sensi del citato art. 51 c.p.m. di guerra applicare nei suoi riguardi la pena capitale da eseguirsi a norma dell’art. 25 c.p.m. mediante fucilazione alla schiena. La sentenza va pubblicata nei modi di legge.

Imputato del delitto di cui all’art. 5 del D.L.L. 27.7.1944, n.159 in relazione all’art. 51 C.P.M.G. per avere in Roma (fino al 3.6.1944) ed in altre città del nord, posteriormente all’8.9.1943, commesso crimini contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato collaborando con il tedesco invasore e prestato allo stesso aiuto e assistenza.

Fra l’altro:

  1. Organizzatore e capo di una banda armata, cui dava il nome di “reparto speciale di polizia” faceva arrestare vari patrioti e partigiani che venivano sottoposti alle più atroci sevizie (strappamento di peli, tentativi di soffocamento, estirpazione delle unghie, conficcamenti di spilli nel corpo, scottature, applicazione delle cosidette “tavolette alla testa” nei luoghi di detenzione siti in Roma nelle pensioni “Oltre-Mare” e “Iaccarino”, trasformate in luoghi di tortura).
  2. Consegnava alle SS germaniche numerosissimi patrioti, (fra i quali Filo [recte Pilo] Albertelli, Ugo Baglivo, Fernando Norma, Maurizio Giglio, Bucci Alberto, Bucci Bruno) per essere massacrati alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
  3. Diffondeva, coadiuvando il nemico, il terrore e il panico al fine di indurre i giovani a presentarsi alla chiamata alle armi del pseudo governo repubblicano fascista.
  4. Si opponeva ad ogni manifestazione di italianità ed all’attività dei patrioti e partigiani (sabotaggi, scioperi, ecc) diretto contro i tedeschi.
  5. Si metteva, unitamente ai componenti la banda avantidetta, a disposizione del nemico per operare rastrellamenti e razzie contro i giovani chiamati alle armi e le persone da adibirsi al servizio del lavoro.
  6. Violava il diritto di extra territorialità del Collegio Orientale e della Basilica di San Paolo di Roma, introducendosi, a mano armata. Al fine di arrestare le persone (patrioti, ebrei, borghesi, militari, tra cui il generale Monti) che ivi si erano ricoverate per sottrarsi all’oppressione dei nazi-fascisti.
In esito alle risultanze del pubblico dibattimento, sentito l’imputato che per primo ed ultimo ebbe la parola, il rappresentante del P.M. ed il difensore d’ufficio.

P.Q.M.

L’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo dichiara Pietro Koch colpevole […] Condanna Pietro Koch alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena.

ANNO:

1945

TRIBUNALE:

Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo

PRESIDENTE:

Maroni Lorenzo

TIPOLOGIA DI ACCUSA:

Arresto,

ACCUSATI:

Koch Pietro

VITTIME:

Alhadeff Nissim
Della Seta Fabio
Furcheim Forster
Jacchia Mario
Lumbroso Giuseppe
Lumbroso Michele
Mieli Gino
Parma Carlo
Piattelli Giuseppe
Ravenna Enrico
Spizzichino Amedeo
Warschauer Fritz

COLLOCAZIONE:

Archivio Centrale dello Stato, Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo, b.35.

BIBLIOGRAFIA:

Massimiliano Griner, La “Banda Koch”. Il Reparto speciale di polizia 1943-44, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. Aldo Lualdi, Pietro Koch. Un aguzzino al servizio del regime, Bompiani, Milano, 1972. Vita e morte di Pietro Koch. Supplemento al n. 37 de "La Capitale", Roma, 1945. Ferruccio Lanfranchi, L'inquisizione nera (banditismo fascista) Edizioni "Nibbio", Milano, 1945.