Caruso

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Fatto

Ad esito d’istruzione sommaria, l’Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, avvalendosi della facoltà di derogare alle norme sulla competenza, giusto il comma terzo dell’art. 41 del D.L.L. 27 luglio 1944, n.159, avocava al giudizio di quest’Alta Corte di Giustizia il procedimento a carico di Pietro Caruso e Roberto Occhetto, imputati come in rubrica.

Dalle risultanze dell’orale dibattimento, confermative di quelle istruttorie, è rimasto accertato quanto appresso:

Pietro caruso, iscritto al partito fascista fin dal 1921, aveva partecipato alla marcia su Roma, ed appartenuto alla squadra di azione “La serenissima” di Napoli, comandata dal noto Mancuso; era stato primo seniore comandante la legione della milizia portuaria di Trieste, e poscia Questore di Verona al tempo del processo e della esecuzione degli ex membri del Gran Consiglio del fascismo.

Poco tempo dopo venne nella stessa qualità di questore trasferito a Roma.

Quando egli era già stato, verso la fine del settembre 1943, con una quindicina di militi della portuaria, fra i quali il brigadiere Roberto Occhetto, con l’incarico di rastrellare l’oro bloccato nelle varie provincie, non appena giunto a Roma, si dette subito all’opera, concorrendo personalmente alla razzia eseguita nello scorcio del gennaio in via Nazionale, dove anzi, essendo ancora sconosciuto, finì per essere razziato egli stesso, riuscendo a farsi liberare soltanto dopo alcune ore. Di ciò prontamente ebbe a rifarsi, organizzando un’altra razzia per proprio conto, compiuta in modo analogo nel pomeriggio di quello stesso giorno, in via Merulana, col pretesto di dimostrare ai tedeschi che anche la polizia italiana era capace di qualche cosa.

[ill.] in prosieguo di tempo, il Caruso, dette ordine ai commissariati sezionali di effettuare in modo continuativo sistematici le razzie, facendo inoltre compiere arresti arbitrari di liberi cittadini, in concorrenza a quelli compiuti dalle S.S. tedesche. Gli individui, strappati così violentemente ed illegalmente alle proprie famiglie, venivano dalle autorità tedesche adibiti al locale servizio del lavoro od anche deportati nel Nord, ed in altre regioni di stati occupati per prestazioni attinenti allo sforzo ed alle operazioni belliche. Alcuni di essi, trattenuti per ragioni politiche, venivano rinchiusi in particolari prigioni e sottoposti a feroci sevizie e torture, tali da ridurli spesso in fin di vita.

Il Caruso, nella sua qualità di Questore, non solo era a perfetta conoscenza di tutto ciò, ma pienamente lo secondava, prendendo talora parte diretta alla esecuzione di sevizie o alle più sottili violenze materiali e morali, dirette, le une e le altre, a strappare segreti od a rivelare nomi di compagni; e valgano da esempio quelle patite dal Prof. Pilo Albertelli e dal tenente di P.S. Maurizio Giglio, come [ill.] dal suo attendente Giovanni Scottu, testimoniate energicamente da quest’ultimo in udienza, anche nei confronti dello stesso imputato.

Perquisizioni d’altra parte, e sequestri di cibarie, mobili, danaro e valori di ogni specie si verificarono quotidianamente ad opera della polizia, diretta dal Caruso, e tedeschi, delatori, capi ed agenti di pubblica sicurezza, se ne spartivano poi, secondo percentuali prestabilite, il prodotto spesso vistoso. Tutto ciò avveniva a danno di cittadini contrari al regime, ma più specialmente degli ebrei, e lo erano i più perseguitati e depredati. Si spiegano così i valori rilevanti ed i numerosi preziosi trovati al Caruso all’atto del suo arresto, nel tentativo di fuga da Roma, (ove aveva per quattro mesi lussuosamente vissuto), verificatosi dopo il sopraggiungere degli Alleati.

Era stata intanto eseguita, nella notte dal 3 al 4 febbraio, la irruzione armata della banda Koch e Bernasconi, e della polizia repubblicana nella Basilica extra territoriale di S. Paolo fuori le mura.

Senza tener conto degli ammonimenti fattigli in contrario dal Commissario di P.S. Leonardo Fini, prospettanti la illegalità e la inopportunità della operazione, dopo aver preparato nei più minuti particolari il colpo nella stessa questura, e nel suo gabinetto, in concorso dei dirigenti e di molti operatori, appartenenti alle bande predette, il Caruso fornì al Kock, ed al Bernasconi, una ottantina di agenti di P.S., per completare l’accerchiamento della zona in cui dovevano operare, e mise a disposizione i commissari Fini e Cannavale, onde legalizzare l’operazione stessa. Si recò poi di buon mattino sul posto, per pretesi accertamenti in ordine a furti e rapine, ivi in quell’occasione consumati dagli operatori, ma in realtà per verificare e gioire dell’ottimo successo della spedizione, che aveva prodotto il rintraccio e l’arresto di numerosi cittadini ed ufficiali renitenti, fra cui il generale Monti. Dispose perfino in quell’occasione, l’intervento dei fotografi di un giornale, per riprodurre il Monti, ed altri ufficiali, in travestimenti sacerdotali, fotografie che rese pubbliche a disdoro dei medesimi. Percosse di suo pugno uno dei funzionari di P.S. che erano stati rastrellati, e precisamente l’aggiunto Mario Chiari, mentre il collega di costui, Giuseppe D’Anselmi, era ancora sanguinante per essere stato malmenato dagli operatori, che proprio dal Caruso avevano avuto l’ordine di colpire, badando, però, a salvare le regioni del viso.

Alle legittime rimostranze per la violazione della Basilica, fattegli da due alti rappresentanti dello Stato della Città del Vaticano, sopraggiunti, il Caruso si limitò a rispondere che quella violazione si era dovuta compiere per volontà del Governo.

Disposta infine la traduzione immediata dei sessantacinque arrestati (quasi tutti già depredati di tutto quanto era in loro possesso, percossi ed insanguinati) a “Regina Coeli”, ve li accompagnò egli stesso, lasciando l’ordine al direttore, dott. Donato Carretta, di tenerli isolati nella maniera più rigorosa, e sotto la stessa sorveglianza, in uno speciale reparto del carcere, dove stabilì anche un particolare servizio di custodia con agenti della Guardia Repubblicana, fino a che quegli infelici non furono poi tradotti al Nord, dove intuitiva era la triste sorte che li avrebbe attesi.

Tale flagrante e terroristica violazione dell’extra territorialità di S. Paolo, a vantaggio del tedesco invasore, suscitò le più clamorose proteste di tutto il mondo cattolico e civile.

Nel pomeriggio del 23 marzo elementi non individuati della resistenza attiva, cogliendo occasione dalla commemorazione nazifascista della fondazione dei fasci, compirono, quale atto di reazione, un attentato a via Rasella nel quale trovarono la morte 32 tedeschi, e, poco dopo, parecchi innocenti cittadini, a causa della immediata ritorsione delle S.S., ordinata dal generale Maeltze [sic], diretta dal colonnello Kappler, capo della polizia tedesca, e coadiuvata anche, con militi portuari ed agenti, dal Caruso in persona a Piazza Colonna e sue adiacenze.

Per disposizione dello stesso maresciallo Kesserling [sic] fu deciso, per il successivo giorno 24, il massacro di 320 cittadini, a titolo di rappresaglia indiscriminata: per un tedesco, dieci italiani.

Non avendo a disposizione l’intero numero delle vittime, fu richiesto dal comando tedesco che per le ore 17 al massimo del successivo giorno 24 fossero fatti trovare pronti, a “Regina Coeli”, a scelta e cura della stessa polizia italiana, cinquanta detenuti politici.

Il Caruso, che pur ebbe a sentire la repugnanza di quanto gli si chiedeva, ritenne di andare a conferire, nelle prime ore del giorno, con il Ministro degli Interni Buffarini Guidi, alloggiato all’albergo Excelsior, il quale, ancora in letto, gli avrebbe, a suo dire, dichiarato che non era possibile non ottemperare alla pretesa tedesca. Il Caruso pertanto, recatosi in Questura, in collaborazione del Kock [sic], ed anche in base ad indicazioni fornitegli, a suo dire, dall’Ufficio Politico, si pose a compilare l’elenco dei cinquanta detenuti, che, da lui firmato, venne consegnato al Commissario Alianello per essere presentato al Direttore di Regina Coeli.

Senonché, stanchi di aspettare oltre il convenuto, i tedeschi già avevano portato via in camion, dalle carceri, un primo gruppo di detenuti, nel quale avevano preteso di includere dieci detenuti, così detti “comuni”, che avrebbero invece dovuto essere scarcerati e posti in libertà.

L’Alianello ed il Direttore surrogarono [?] quindi d’iniziativa loro, nell’elenco del Caruso, ad alcuni nominativi ebraici, quelli dei disgraziati “comuni”, già portati via dai tedeschi, e ne venne fuori un elenco nuovo, che fu di seguito controfirmato dal Caruso, come se fosse stato l’elenco originario.

Il modo barbaro e crudele con il quale alle Cave Ardeatine, il giorno stesso, furono dai tedeschi uccisi i detenuti suindicati, fra cui sei ragazzi dai quattordici ai quindici anni, oltre quindici altri, sconosciuti, in maniera da raggiungere il numero di 335, è stato comprovato dalla relazione ufficiale del prof. Attilio Ascarelli, confermata e delucidata nella pubblica udienza.

Nei riguardi di Occhetto Roberto […] mentre appunto si trovava in tale situazione, il Caruso ritornò a Roma come questore repubblicano, e, incontrato l’Occhetto, ed inteso di farne il suo segretario particolare, ottenne, per quanto a stento, che il Kappler glielo lasciasse.

L’Occhetto nell’assumere tale veste di segretario, per celare il suo vero essere, assunse la qualifica di ingegnere ed il cognome di Raviola, corrispondente a quello materno.

Godendo egli la piena ed assoluta fiducia del Caruso, acquistò subito nella questura una posizione predominante, divenendo, nell’assenza del Caruso, un “alter ego” di lui, e tenendo persino la chiave della cassaforte, in cui richiudeva il bottino che si veniva continuamente facendo, e riscuotendo, nel contempo, la fiducia anche delle S.S. tedesche con le quali infatti seguitò sempre, fino all’abbandono germanico di Roma, e tenne rapporti, che proseguirono a corrispondergli lo stipendio.

Allorché poi gli Alleati cominciarono su Roma, l’Occhetto, pur continuando nelle sue funzioni presso il Caruso, e nei contatti con i tedeschi, si insinuava sempre di più – tramite certo Garulli – in una autonoma organizzazione militare clandestina, diretta dal T. Col. Dei bersaglieri Giuseppe Bertone, e dal Col. dei Carabinieri Ugo Luca, fornendo, secondo le asserzioni di costoro, particolari tempestive informazioni.

Giunti gli Alleati a Roma, l’Occhetto, che all’ultima ora era stato ricoverato in casa propria dal Col. Luca si rifiutò di seguire il Caruso al Nord, pur recandogli all’atto della sua partenza i valori conservati nella cassa forte della Questura, dopo aver bruciato le carte compromettenti.

[…]

Il Caruso: del reato previsto e punito dall’art. 5 del D.L.L. 27.7.1944, n.159, in relazione con gli art. 51 del C.P.M.G. e 61 n. 9 del C.P.C., per avere in Roma, posteriormente all’8 settembre 1943 e fino al 4 giugno 1944, valendosi delle funzioni di questore, da lui assunte alle dipendenze dell’illegale governo fascista repubblicano, prestato aiuto, assistenza e collaborazione al tedesco invasore:

  1. Consegnando, il 24 marzo 1944, al comando militare tedesco n.50 detenuti politici e comuni, affinché fossero, come furono, sottoposti ad esecuzione sommaria dal comando stesso quale atto di rappresaglia indiscriminata conseguente all’attentato di Via Rasella;
  2. attuando reiterate razzie ed arresti arbitrari di liberi cittadini, poi consegnati ai tedeschi per il servizio del lavoro;
  3. violando la extra territorialità della Basilica di S. Paolo, al fine di trarre in arresto ufficiali e altri cittadini, e li vi si erano rifugiati per esimersi dall’adempimento di obblighi ad essi imposti dai tedeschi e dal governo fascista repubblicano;
  4. autorizzando il brigadiere della milizia portuaria Occhetto Roberto ed altri militi portuari a frequentare un corso di sabotaggio istituito a Schewening dalle autorità tedesche.
L’Occhetto: dello stesso reato ascritto al Caruso per avere cooperato col predetto Caruso, nella qualità di segretario particolare di costui, nella esecuzione del reato ascritto al medesimo, e per avere inoltre prestato direttamente aiuto e collaborazione al tedesco invasore frequentando il corso di sabotaggio di Schewening, tenendosi in continui rapporti con ufficiali delle S.S. tedesche, per facilitarne l’attività e facendo eseguire a richiesta di costoro l’arresto dell’ex consigliere nazionale Di Stefano  accusato di propaganda antitedesca.

Per quanto concerne la misura della pena si osserva, nei riguardi del Caruso, che la molteplicità e la gravità dei fatti da lui commessi, il suo comportamento fazioso e crudele, l’assoluta mancanza, in lui, di ogni amore di Patria e di ogni senso di umanità, rendono doverosa, nei suoi confronti, l’applicazione di tutto il rigore della legge, onde deve essere a lui inflitta la pena stabilita dall’art. 51 del codice penale militare di guerra, la morte cioè fucilazione nella schiena (art. 25 C.P.M. di pace).

Per quanto riguarda l’Occhetto si osserva che le risultanze processuali non hanno offerto alcun elemento di prova per avvalorare la interpretazione più grave, a lui ascritta, di avere concorso nei fatti ascritti al Caruso, quali le razzie ed i rastrellamenti di persone, l’azione violatrice della extra territorialità di S. Paolo, e la concessione dei cinquanta detenuti per l’eccidio delle Cave Ardeatine. Di guisa che, a carico dell’Occhetto, rimasero accertati soltanto i fatti che lo riguardavano singolarmente, vale a dire:

1)la sua partecipazione al corso di Schewening, non seguita però da alcun effettivo atto di sabotaggio.

2) la continuità dei rapporti con gli ufficiali delle S.S. tedesche, mantenuti per oltre un mese, prima di assumere la qualità di segretario particolare del Questore Caruso.

3) l’ordine di esecuzione, a richiesta di costoro, tramite un certo Giovanni Pastore, dell’arresto dell’ex Consigliere Nazionale Bernardino Di Stefano, attendista, contrario al regime repubblicano ed accusato di propaganda antitedesca.

4) la partecipazione alle frequenti spartizioni che, sotto forma di gratifiche, erano in uso nella Questura, degli abbondanti frutti, in generi, merci e valori, ritratti dalle perquisizioni e dalle depredazioni, che il Caruso faceva compiere dai suoi in danno dei privati.

[…]

Si impone la concessione delle attenuanti generiche che, a sensi dell’art. 7 della legge, riducono la pena a quella, pur sempre grave, di anni trenta di reclusione. […]

ANNO:

1944

TRIBUNALE:

Alta Corte di Giustizia per la punizione dei crimini del fascismo

PRESIDENTE:

Maroni Lorenzo

TIPOLOGIA DI ACCUSA:

Arresto,

ACCUSATI:

Caruso Pietro
Occhetto Roberto

VITTIME:

COLLOCAZIONE:

Archivio Centrale dello Stato, Alta corte di Giustizia per le Sanzioni contro il Fascismo, b.35.

BIBLIOGRAFIA:

Silvia Haia Antonucci e Claudio Procaccia (a cura di), Dopo il 16 ottobre. Gli ebrei a Roma tra occupazione, resistenza, accoglienza e delazioni (1943-1944), Viella, Roma, 2017. Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito, Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma, 2004. Zara Algardi, Il processo Caruso, Darsena, Roma, 1944.